31 agosto 2016

Bentornato Sislej!

 
Una bella antologica al MAXXI racconta la storia di un ex giovane artista kosovaro, transitato per l’Italia e ora a New York. Rivelandoci la sua visione sintetica e puntuale dell’arte

di

Da quell’Illegal Albanian Pavilion (1997) di cui tutti hanno parlato dopo aver visto sfilare – in occasione della 47. Esposizione d’Arte la Biennale di Venezia – un giovane ragazzo che (studiava ancora all’Accademia di Belle Arti di Firenze) come «padiglione mobile» il cui intento era quello di mostrare l’assenza di un territorio e di accentuare l’erranza di alcune popolazioni, Sislej Xhafa (Peja, Kosovo 1970) ha disegnato, negli anni, un appassionato e generoso percorso creativo che dà voce al pensiero, un itinerario che rende visibile la riflessione, che registra e pone l’accento su quanto, nel presente memore del passato, delinea qualcosa del futuro. 
Alimentato da uno sguardo costante sui racconti che compongono il mondo della vita, sull’umanità dell’uomo e sulla storia delle sue idee, sui flussi transitori e contingenti che tormentano le società contemporanee e su una cronaca che muore nel brusio quotidiano, Xhafa propone da sempre un cortocircuito costruttivo, un’irriverenza meditativa, un processo che interrompe analiticamente il teatro degli eventi per mostrare – proprio un attimo prima che le cose si perdano nell’accumulo indefinito delle conoscenze – il volto di problematiche irrisolte, il collasso della gentilezza e dell’ospitalità, il declino delle comunità, il sistema della rivoluzione del controllo (Kucklick) che trasforma gli sfruttati in interpretati. Con un bildhaften Denken (pensiero per immagini) che cavalca il presente e scavalca il futuro, il suo procedimento rompe gli equilibri (i perbenismi, i conservatorismi) e difende un sistema di valori che pongono al centro della piazza creativa l’etico e l’estetico, che sottolineano le apoplessie del mondo politico, che decifrano la scena socio-economica di un mondo maltrattato dal malfunzionamento della macchina amministrativa. 
Ripercorrendo nel titolo un’opera territoriale realizzata in Toscana nell’ambito del progetto Arte all’Arte (quinta edizione, 2000) dove l’artista comanda a distanza – mediante un walkie-talkie – un trattore che scrive nove lettere giganti su un campo di Casole d’Elsa, Benvenuto! è, oggi, il titolo che fa da viatico ad un’importante esposizione organizzata negli spazi del MAXXI (e precisamente nella Galleria 2, «una delle più impegnative del museo per la sua profilatura curva e inclinata», a detta di Hou Hanru e Luigia Lonardelli, curatori della mostra) per presentare, accanto ad alcune meravigliose composizioni in situ, un ventaglio di lavori realizzati dagli anni Novanta a questo secondo decennio del XXI secolo. «Io e Hou Hanru», suggerisce Xhafa, in un’intervista rilasciata a Hans-Ulrich Obrist e consegnata alle pagine centrali del prezioso catalogo (edizioni Quodlibet, pag. 128, € 18) che accompagna il cammino visivo, «pensavamo di intitolare Benvenuto! questa mostra. È importante per me che insieme ai nuovi lavori ci sia qualche vecchia opera e in effetti anche Hanru è dello stesso avviso. Sono parte della mia attività e del mio percorso. È importante per me che, accanto a una poetica concettuale, lo spettacolo abbracci anche un’esperienza visuale. Come interminabili onde di una marea. Così ci sono vecchi e nuovi lavori, tutti insieme».
Ad aprire il tragitto, quasi come un inciampo oftalmico e come un momento di distensione che crea una piacevole eterotopia, è il Paradiso (2003) collocato nell’atrio antistante l’ingresso del museo, sulle cui vetrate una nuova scritta del benvenuto concepita per l’occasione – questa volta trasparente e in braille – crea una fenditura tra lo spazio interno e quello esterno del MAXXI (tra l’Innen e l’Aussen, tra l’aperto e il chiuso, tra l’urbanistica e l’architettura) «mettendo sottilmente in questione l’esistenza di un confine e ponendo l’attenzione sull’elemento della porta, come territorio in cui si confrontano le funzioni di salvaguardia e di accoglienza» (Hanru). In corrispondenza, dall’interno, Future of Old (2001) è un’opera di buio che non solo modella un dialogo con la scritta trasparente dell’ingresso, ma invita anche a riflettere sull’immagine racchiusa in una cornice dorata (nella sala buia si intravede la fotografia di un uomo del Marocco che dorme) che sembra invitare lo spettatore ad alzare il lume della ragione (illato lumine, suggerirebbe Ovidio) e a individuare una perturbante familiarità. Seguono poi opere che fanno apparire diversi passati e mostrano una coscienza che acquisisce, progredisce e ricorda per lavorare con una babelicità estetica, con una poliglottia linguistica tesa a cogliere il presente e le presenze – Michel Leiris ha suggerito in un testo disarmante (Le Ruban au cou d’Olympia) che bisogna appartenere al proprio tempo per potergli sopravvivere. C’è la statua di Giuseppe (2003-2007), un Garibaldi umanizzato. C’è la Casa senza titolo (1999) collocata sul My Garden (2011). C’è l’immagine della performance Again and Again (2000-2012) e quella imperdibile del Padiglione clandestino (1997). C’è il video Skinheads Swimming (2002) ambientato nella Fontana di Trevi e, tra le tante altre meraviglie, il Tombino del 2000. Poi opere più recenti, realizzate dopo il trasferimento a New York («il miglior posto in cui si possa scappare», «un luogo dove preservare e sviluppare un processo di apprendimento»): Moulin Rouge (2009), Sunshade (2011), Landscape L (2013), la tenerissima Mother (2013) e Sunshine (2015) ne sono alcune. Fiften Centimeter High Tide (2016), realizzata sulla parete concava della Galleria 2, ci mostra infine la potenza di una poesia ridotta al silenzio, ci dice tutto quello che possiamo dire quando alle parole togliamo la voce.
Antonello Tolve

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