02 agosto 2013

Boetti über alles!

 
La sede della Dia:Becon sul fiume Hudson compie dieci anni. E li festeggia con una mostra su Boetti, il nostro artista più amato all'estero e collezionato da anni dalla Fondazione. Ma l'apprezzamento per il made in Italy culturale si conferma anche con il progetto dedicato ad Antonio Gramsci nella casa del Bronx della Dia. Sarà l'ora di imparare dagli altri a valorizzare la nostra cultura?

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Dia:Beacon, Riggio Galleries, 2002. Photo: Michael Govan. © Dia Art Foundation.

Da quando dieci anni fa è stata aperta l’ultima sede della Dia:Beacon, il modo migliore per raggiungerla è prendere un treno. Lasciandosi alle spalle New York, si sale lungo le rive del fiume Hudson, circondati dal verde e dal silenzio dell’acqua. Il viaggio è una sorta di depurazione dal frastuono cittadino in preparazione alla visita di un tempio, un luogo dove si onora l’arte contemporanea, dando alle opere lo spazio e il tempo per essere contemplate e vissute. Dia:Beacon è una delle sedi dell’ultraquarantenne Dia Foundation. È il museo dove lasciarsi emozionare dai neon di Dan Flavin, dove perdersi nelle griglie di Agnes Martin, intuire le visioni di Robert Smithson e scoprire l’eleganza delle carrozzerie accartocciate di John Chamberlain. 
Dal 18 maggio, per quasi un anno, Dia:Beacon sarà anche teatro di una nuova consacrazione di Alighiero Boetti, dopo che è stato celebrato con la mostra di un anno fa al MoMa e un’altra esposizione presso la galleria Barbara Gladstone terminata a marzo. Le opere sono allestite nel grande piano interrato dell’edificio, uno spazio dal forte sapore industriale, grezzo e suggestivo, dove trovano posto anche nuove acquisizioni di Bruce Nauman, e dove si terrà, sempre per il decimo anniversario, anche una storica performance dedicata all’ossessione per le date di On Kawara. I lavori di Boetti in mostra, tra cui le 5.040 buste di Untitled (Victoria Boogie Woogie) del 1972 e Ammazzare il tempo del 1978, fanno tutti parte della collezione della Dia e sono stati mostrati in rare occasioni. «Nel 1994 erano esposti nel vecchio spazio di Chelsea, sulla 22esima strada», racconta la direttrice di Dia:Beacon Susan Batton, riferendosi a una mostra che aveva accostato le opere di Boetti a quelle di Frédéric Bruly Bouabré, un artista della Costa d’Avorio al tempo ultrasettantenne. «Sono lavori che abbiamo acquisito negli anni Novanta, e che siamo molto orgogliosi di ripresentare al pubblico». 
Alighiero e Boetti, Mappa (Map), 1972. Dia Art Foundation; Gift of Louise and Leonard Riggio.

Il grande successo internazionale che sta riscuotendo Boetti, «ha in qualche modo a che fare anche con Dia, in particolare con Lynn Cooke, ex curatrice della fondazione e attualmente al Reina Sofia, il museo da cui è partita la mostra poi arrivata al MoMA e passata per la Tate Modern», spiega Batton. «Ma in generale è anche emblematico del crescente interesse negli Stati Uniti, dei collezionisti americani, per l’Arte Povera». Non a caso uno dei membri del consiglio di amministrazione di Dia:Beacon è Howard Rachofsky, che nella sua casa texana firmata da Richard Meier, ha aperto al pubblico una raccolta che comprende opere di Burri, Boetti, Paolini, Manzoni, Pistoletto, Mario Merz e Marisa Merz.
Aggirandosi per il museo, dove ogni sala è dedicata a un solo artista, Batton racconta le origini dell’edificio. «Vedi che luce perfetta? È la luce naturale dal nord. Questa era una fabbrica di scatole di biscotti, e gli impiegati dovevano correggere i colori a occhio nudo. La struttura risale al 1929, ma se si considerano i nuovi musei, il sistema di illuminazione non è differente». Anche i pavimenti di legno sono originali, mentre il piano di organizzazione delle sale e gli esterni sono stati studiati dall’artista Robert Irwin e dallo studio di architetti OpenOffice.
Alighiero Boetti, veduta della mostra alla Dia:Beacon

Nata nel 2003, Dia:Beacon è solo uno dei sette spazi della Dia, fondata trent’anni prima, nel 1974, come organizzazione no profit devota all’arte del suo tempo e alla commissione di opere. È stata pioniera del quartiere newyorkese di Chelsea, aprendovi una sede già negli anni Ottanta in un vecchio edificio rimesso a nuovo. Al tempo, quello che adesso è il più celebre distretto delle arti con più di 300 gallerie in pochi isolati, era una zona poco raccomandabile, dove si concentravano spaccio e prostituzione. La sede storica è stata poi chiusa nel 2004, ma lo scorso anno è stata annunciata una riapertura che dovrebbe realizzarsi entro il 2016. «In generale l’impatto economico degli spazi della Dia è stato enorme», spiega Batton, alludendo alla rinascita di Chelsea, ma riferendosi in particolare alla sede di Beacon. «Secondo un recente studio, la Dia ha portato da 12 a 15 milioni di dollari nell’economia locale. Basti pensare che la maggior parte dei nostri visitatori non è originaria di questa valle, ma arriva da New York City, e quasi il 30 per cento sono stranieri. E una volta visitato il museo, la gente si ferma a prendere un caffè, mangia da qualche parte, compra qualcosa». La stessa caffetteria del museo è gestita da un ristorante locale, e sta divenendo un punto di ritrovo per la gente del posto.
Thomas Hirshhorn, Gramsci Monument, 2013

Per non tradire lo spirito pioniere, questa estate Dia sarà in un altro luogo generalmente escluso dai riflettori del mondo dell’arte. Porterà il suo nome nel Bronx, un quartiere che sta cercando di riscattare la brutta fama che si trascina dagli anni Sessanta (e che tra l’altro quest’anno sarà presente anche alla Biennale di Venezia, con il padiglione americano curato dal Bronx Museum). Dal primo luglio, a Forest Houses, la Dia ha inaugurato un progetto dedicato ad Antonio Gramsci, un lavoro pubblico commissionato all’artista svizzero Thomas Hirshhorn. «Era dal 1996, dai tempi di 7000 Oaks di Joseph Beuys, che non commissionavamo un lavoro – racconta Batton – e questo è un modo per onorare il nostro passato guardando avanti». La curatrice, Yasmil Raymond, è parte del nuovo team messo insieme dal direttore della fondazione Philippe Vergne, entrato in carica nel 2008. «Vergne sta conducendo Dia in un momento di transizione, e ha costruito una squadra dinamica e brillante. Qualcun’altro al suo posto avrebbe potuto pensare di prendersi semplicemente cura di ciò che già c’era, ma lui guarda al futuro, agli artisti contemporanei, con una visione tutt’altro che statica. Un programma impensabile senza i nostri numerosi e generosi finanziatori». La stessa apertura di Dia:Beacon è stata resa possibile grazie a una grande donazione dei collezionisti Louise e Leonard Riggio, a cui sono intitolate le sale del museo, mentre le opere sono state acquisite grazie al contributo di altre fondazioni, gallerie, privati e sponsor.
Andy Warhol, Shadows, 1978-79. Dia Art Foundation. © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. Photo: Bill Jacobson.

«È incredibile questo lavoro di Warhol, vero?», domanda Batton entrando nella sala dedicata a Shadows, il ciclo di dipinti di Andy Warhol realizzato tra il 1978 e il 1979 e reinstallato a Beacon per festeggiare il decennale. «È stato esposto in vari musei, tra Washington e Chicago, ed è tornato da gennaio». racconta. «Beacon ha un’enorme collezione di Warhol, e ha donato diversi lavori anche al suo museo di Pittsburgh». Pop, Minimalismo, Land Art, Arte Povera e Concettuale: qual è il fil rouge che accomuna gli artisti nella collezione della Dia? «Hanno tutti reinventato il linguaggio dell’arte», dice Susan. E a quale artista vorresti dedicare un’altra sala del museo? «Non saprei, ma credo a una donna. È difficile invece pensare a cosa cambierei, è tutto così perfetto».

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