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28
febbraio 2017
Che c’entrano i denti con il futuro?
Progetti e iniziative
C’entrano e non c’entrano, se a metterli in gioco è un artista che non ama l’ordine e che guarda alle subculture. Se, insomma, di scena è Lili Reynaud-Dewar. A Museion
“TEETH, GUMS, MACHINES, FUTURE, SOCIETY”. Questo è il titolo della mostra di Lili Reynaud-Dewar, in corso al Museion di Bolzano fino al prossimo 7 maggio, realizzata in collaborazione con Kunstverein di Amburgo e il de Vleeshal di Middelburg.
“Denti, gengive, macchine, futuro, società” si uniscono al quarto piano del museo in un accostamento piuttosto scombinato, ma è proprio senza ordine preciso che l’artista ci chiede di visitare la mostra. Nessuna disposizione quindi, nulla che ci possa indicare la via dentro questi scenari che includono suoni e science-fiction.
Dunque ok, non c’è alcun punto di riferimento. D’altronde Lili Reynaud-Dewar (La Rochelle, 1975) fa parte di quella schiera di artisti che non hanno nulla a che vedere con gli schemi e le omologazioni e non potevamo che aspettarci la conferma in occasione di questa sua prima personale in Italia, in un museo più che disposto ad accoglierne analisi e provocazioni.
La conosciamo già per il suo lavoro dal titolo “My Epidemic” presentato alla Biennale di Venezia del 2015, ma anche per aver fatto mostre e presentato progetti in molti musei internazionali, come per esempio il New Museum di New York, il Museum of Contemporary Art di Chicago, lo Studio Museum di Harlem, il Centre Pompidou di Parigi, la Kunsthalle di Basel e via dicendo. Il suo lavoro, che spazia dalla performance all’installazione indaga spesso attorno ai confini dell’identità, del corpo e della società. Le opere, si fanno poi vive tramite il suono, il gesto e la parola per conquistare uno spazio che va oltre la dimensione tridimensionale.
Avrete capito quindi che, anche qui, ci troviamo dentro la scomposizione dei concetti binari classici, immersi già dentro il processo di oltrepassamento dei limiti stabiliti dalle diciture tradizionali. Siamo nel mezzo di un’unica installazione, più che in passeggiata nel giro turistico fra opere. È come essere dentro un grande, imponente carillon: le pareti sono interamente occupate da enormi pannelli contenenti estratti di A Cyborg Manifesto (1985) di Donna Haraway, il pavimento è ricoperto dagli stessi estratti del manifesto stampati su poster in versione ridotta. Nella sala sono proiettati il film, che ha lo stesso titolo della mostra in cui sono ritratti i preparativi e lo sviluppo di una performance a Menphis, e il video della danza che ritrae l’artista mentre danza all’interno delle sale vuote di Museion.
La sala è poi occupata da diversi girlls (gioielli per denti) sovradimensionati e fatti a mano in oro, argento e oro argentato ed è pervasa da suoni persistenti che impegnano anche lo spazio sonoro.
Più giriamo, guardiamo, ascoltiamo e siamo curiosi di individuare gli ingranaggi di questo contenitore ma non ci è chiesto di farlo, capiremo dopo; il caos non si comprende da dentro.
Dietro questa idea di costruire un mash-up sociale c’è il progetto di schierare sulla stessa linea gli oggetti status symbol delle subculture – in questo caso i grills che sono accessori simbolo dell’ambiente rap e hip hop – e macro temi appartenenti alle domande sulla società attuale, qui visti nelle parole del saggio femminista di Haraway, che contrasta in qualche modo la dualità che si manifesta per opposizioni e spesso per discriminazioni.
Il grill, che è usato per fare sfoggio di ricchezza e successo qui ritorna anche nelle vesti di una protesi, utilizzata per coprire problemi legati alla mancata cura dei denti, sinonimo eclatante di gravi disagi sociali. La questione della protesi, si allarga così ad una riflessione sulla natura del corpo che ormai è rivalutata in relazione alla sua connessione con la macchina e l’artificio. Potremmo metterci l’animo in pace citando Antonio Caronia: «È naturale che sia artificiale».
Sembra un azzardo eppure non c’è nulla di più coerente. L’artista francese ci inserisce concretamente in questa riflessione e tenta in ogni modo di operare sulle regole che costituiscono l’identità sociale andando a scardinare i punti che accompagnano la natura degli stereotipi che ne sono parte.
Cos’è il futuro se non la proiezione di un contenuto che si svolge adesso? Partendo dal presupposto che la società risiede laddove essa si manifesta e che questo avviene ovunque, non c’è nulla di strano di proiettare un dettaglio underground nell’ideologia del futuro.
La subcultura viene messa in secondo piano perché per natura etimologica “sta sotto”, ma è proprio per questo che deve essere portata in evidenza.
Uno dei manifesti cita: “Il cyborg presume l’ironia; uno è troppo poco, e due è solo una possibilità. L’intenso piacere della tecnica, la tecnica delle macchine, non è più un peccato ma un aspetto dello stare nel corpo [..] la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione”.
Ed ecco fatto: “teeth, gums, machines, future, society” non suona più così strampalato.
Cinzia Pistoia