15 ottobre 2017

Come nasce un museo?

 
Ad esempio dall'incontro tra un artigiano e l'arte contemporanea. Dalla costa ligure vi documentiamo i primi passi di un progetto molto particolare. Tutto in divenire

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I più affezionati ad Exibart sanno che di norma non amiamo apparire retorici. Però a volte capitano occasioni in cui è necessario fare uno strappo alla regola. Consapevoli, e soprattutto convinti, corriamo questo rischio con l’ex laboratorio di Guido Rocca, che non possiamo non descrivere – tra il melenso ed il retorico – come uno di quei posti magici, in cui il tempo sembra essersi volutamente alienato. Macchinari per la lavorazione del legno, scaffali pieni di pezzi pronti all’uso, ottonerie sparse, armadietti che si aprono come magnifici polittici rivelando la loro varietà di punte per trapano e dischi per levigatrice. E nell’aria un odore pungente di solventi e vernici che ti rimane nel naso per un bel po’. Un luogo relativamente piccolo e bellamente nascosto tra i palazzi, nella parte più cittadina e meno architettonicamente caratteristica di Chiavari, provincia genovese. Lì dentro fino al 2009 – ovvero alla morte di Rocca – si realizzavano mobili, soprattutto sedie, produzione artigianale quest’ultima che a partire dalla cosiddetta “chiavarina” ha rappresentato – e rappresenta ancora oggi, al netto delle sue molteplici rivisitazioni, Giò Ponti compreso – un fiore all’occhiello e un vanto per la cittadina del levante. È un luogo fermo da quasi dieci anni, ma entrandoci la sensazione è che potrebbe essere stato attivo fino all’altro giorno. E scusate questa ennesima stilettata retorica, ma quando ci vuole ci vuole.
Abbiamo visitato l’ex laboratorio Rocca perché oggi è un museo, o per meglio dire, sta a piccoli passi acquisendo quello status grazie ad un percorso che entro l’anno prossimo lo porterà a trasformarsi in sede museale col pedigree a posto. Nato per volere di Anna Marchese Rocca (moglie di Guido), della Società Economica di Chiavari e col coordinamento scientifico di Raffaella Fontanarossa, questo spazio d’ora in avanti tramanderà il valore storico di una colonna portante dell’artigianato locale/nazionale. E non solo, perché è proprio la signora Anna, in occasione dell’apertura inaugurale della sede, ad anticiparci che questo «non sarà un museo con le “vetrinette e teche”, ma un luogo attivo, dinamico, dove ci saranno continui interventi di artisti contemporanei. Un ambiente vivo insomma». 

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L’inizio di una sedia. Artisti al museo Guido e Anna Rocca – installation view – photo Andrea Rossetti

E il buongiorno si vede dal mattino con la primissima mostra in programma, dal titolo “L’inizio di una sedia. Artisti al Museo Guido e Anna Rocca” (fino alla fine di novembre), un progetto che mantiene le promesse – e le premesse – per quello che d’ora in poi si chiamerà ufficialmente “Museo Guido e Anna Rocca della sedia leggera di Chiavari”. Lara Conte, curatrice del progetto assieme a Mario Commone, ci racconta come lo spazio del laboratorio sia stato adattato, «creando all’ingresso una zona più museale, dove è possibile vedere documenti dell’attività», con l’aggiunta di «alcuni progetti d’arredamento realizzati da Rocca, che raccontano l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, quella piccolo borghese del dopoguerra e del boom economico». In questo caso salta all’occhio una musealizzazione poco “imbalsamata”, così potremmo definirla, con fogli mezzi svolazzanti spillati solo nella parte superiore. E poi – momento amarcord – fa davvero tanta tenerezza inserirsi con lo sguardo in ambienti dove, e in particolar modo chi è un po’ sotto o sopra gli “anta”, potrà dire “quella credenza l’aveva a casa mia nonna”.
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L’inizio di una sedia. Artisti al museo Guido e Anna Rocca – installation view – photo Andrea Rossetti

Entrando nel vivo della mostra, la Conte racconta come la scelta sia caduta su «Quattro artisti che si potessero inserire in questo spazio così caratterizzato senza entrarci in contrasto». Quattro artisti che – prosegue la curatrice – «Presentano poetiche molto differenti tra loro»; ne siamo convinti, Beatrice Meoni, Lorenzo D’Anteo, Marco Andrea Magni e Jacopo Benassi adottano media tanto distinti da essere condizionanti nell’individuale relazione col luogo, con Meoni e D’Anteo che risultano come i due più in empatia con un passato tanto ingombrante. La prima infatti ha prodotto tele che simulano ed emulano le lunghe file di seste – un potpourri di pezzi in legno lavorati – appese in abbondanza nella parte alta delle pareti del museo/laboratorio. I suoi Oggetti solidi sono astrazioni de-formative, frammenti di tela pendenti dai colori tenui, che non ci si vergogna a definire “smorti”, spenti, soprattutto in rapporto al grigetto dei supporti di fondo; tuttavia perfettamente ad hoc, così organicamente inseriti nel loro esser ripresi dalla palette cromatica utilizzata da Guido Rocca per i suoi progetti. Che, s’è già detto, aprono la visita, ma incrociano il lavoro della Meoni anche per una comune attitudine allo “svolazzo”, una leggerezza aleatoria che abbandona la finzione degli elementi in legno per ritrovare la natura bidimensionale della carta. In più entro certi contesti la fascinazione totale gioca un ruolo importante, determinando di slancio una mimesi pura e semplice nella piccola tela dalla collocazione contraria ad ogni ragionevole scelta espositiva, troppo alta per essere correttamente apprezzata. Perfetta però per entrare in contatto diretto con quelle seste ed intrufolarsi al meglio nella storia del luogo.
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L’inizio di una sedia. Artisti al museo Guido e Anna Rocca – installation view – photo Andrea Rossetti
Ancora sui “rendering pre-informatici” di Rocca ha lavorato D’Anteo per i suoi Interiors, tre disegni a carboncino in grandezza naturale. Nero su bianco, con un dinamismo di segno ancor più apprezzabile data la dimensione, l’artista dissimula tra macchinari e quadri elettrici degli scorci su ambienti d’epoca, in cui le modanature pompose dei mobili progettati da Rocca sono inframezzate da lunghi tratti che disegnano fili volanti; da astruse anomalie dal retrogusto pop (come una maschera di Paperino), da elementi spuri (i manifesti di propaganda), dalle ragnatele che segnano un’ineludibile passare del tempo. Ecco, con D’Anteo il tempo torna a segnare le distanze, anzi dichiara che la borghesia pronta ad occupare quelle ipotetiche ambientazioni è passata decisamente a “miglior vita”.
Come per Meoni e D’Anteo, l’intervento di Magni è ulteriormente contemplativo della storia del luogo e del suo protagonista. Forse un pizzico più distaccato, indipendente e concettuale, e questo benché sia l’unico qui ad utilizzare l’oggetto sedia nella sua interezza, finendo/rielaborando delle incompiute presenti nel laboratorio. Il progetto, I trentatré nomi di una sedia, è un work in progress che per undici volte svilupperà un gruppo di tre sedie. Per un totale – se la matematica non è un opinione – di trentatré appunto, «tutte provenienti dal laboratorio Rocca e con le quali l’artista toccherà diverse sedi espositive» racconta la curatrice. Quello che Magni porta al museo Rocca è ovviamente il primo step di un progetto che, pur concentrandosi su un oggetto di design, lui stesso definisce categoricamente «di scultura»; in cui è parafrasato il parallelismo con i Trentatré nomi di Dio della Yourcenar, e prevede la caratterizzazione di ogni pezzo partendo dal tipo di sedia, dal nome pensato per questa (ad esempio “la mano che entra in contatto con le cose” è una vezzosa seduta da caminetto), dalla conseguente scelta cromatica (nel caso specifico un rosa, che «ricorda la pelle umana» spiega l’artista). Comune a tutte è l’applicazione di un magnete al neodimio sotto l’impagliatura, punto di forza attrattivo (o repulsivo, dipende dai casi) nascosto alla vista, «come se ci fosse una presenza invisibile» continua Magni. L’elemento estraneo che non è sfuggito alla folla di curiosi dell’opening, che trovandosi in mezzo a tanta gente ed incappando nelle sedie-sculture (per le quali non è stata pensata alcuna collocazione propriamente statuaria, tale da elevarle rispetto al piano di calpestio) non possono fare a meno di toccarle e rigirarsele in lungo e largo. Non ne abbiamo le prove, ma qualcuno ci si potrebbe anche essere seduto. Con buona pace dell’artista.
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L’inizio di una sedia. Artisti al museo Guido e Anna Rocca – installation view – photo Andrea Rossetti

Ne parliamo per ultimo, pur essendo in realtà l’apripista dell’intera mostra. Ma Jacopo Benassi con il suo enorme ritratto di Martino Gamper e una serie fotografica di sedie strampalate – sedie che, racconta, «ho creato per il locale che avevo a aperto a La Spezia», un lavoro di bricolage in cui dice «mi sono divertito parecchio», realizzato attingendo a «pezzi di recupero, creando come una sorta d’ibridazione tra storie» – non dovevano essere lì. O meglio, Benassi era regolarmente scritturato, ma con un progetto differente, che includeva la collaborazione di alcuni giovani di un istituto professionale del luogo. «Avevo pensato di mescolare passato e presente, poi sono finite le scuole, tutto è diventato più complicato e non se n’è fatto più nulla» ci rivela nemmeno con troppo rammarico. 
Questo retroscena d’artista è stato prodromo per il match virtuale “design vs artigianato”, titolo Martino Gamper/Guido Rocca, parallelismo tra identità del luogo e scatti «che già avevo da tempo, ma si adattavano perfettamente al contesto». E mentre il designer di fama mondiale – quello, guarda caso, delle “100 sedie, in 100 giorni e in 100 modi” – incontra l’artigiano della provincia, Benassi gioca col concetto proprio di design come produzione in serie, ritraendo – più che semplicemente fotografando – l’unicità delle sue “creature”. Ulteriore sciccheria – nonché scelta di un fotografo alla ricerca di un coinvolgimento anche meta-visivo – è l’audio di carpenteria prodotto appositamente, che col suo tintinnio di martelli ed attrezzi vari crea una pertinenza azione-luogo invidiabile.
Col nostro resoconto per adesso ci fermiamo qui, ma siamo convinti che crescendo questo nuovo museo darà grandi soddisfazioni, non solo a livello locale. Ovviamente vi terremo aggiornati.
Andrea Rossetti

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