29 maggio 2023

Destrutturare il pericolo di genere: il progetto diffuso di Valentina Medda

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Consapevole dello spazio, per essere liberә: intervista all’artista Valentina Medda su una questione di genere, a partire dalla performance Cities by night, tra Parigi, Amsterdam, Bologna, Milano e Cagliari

Alcuni dei partecipanti, Bologna, “Mappe, risultanti dalle loro passeggiate”

Si tratta di un concetto facilmente strumentalizzabile quello del “pericolo”, specie se lo si associa alle donne e alla libertà di passeggiare di notte. Valentina Medda, artista interdisciplinare nata a Cagliari e attiva nella scena italiana ed europea, destruttura una condizione data per scontata, spostandola su un differente piano di osservazione. Lo fa con la performance di “Cities by Night”, progetto partecipativo svolto tra Parigi, Amsterdam, Bologna, Milano e Cagliari, recente tappa in collaborazione con Sardegna Teatro e Donne al traguardo onlus. Insieme all’artista, abbiamo dialogato su un punto dolente della questione di genere: l’identificazione delle donne come vittime designate dello scenario notturno della città. Partendo dal suo progetto, abbiamo così analizzato questa convinzione.

Cities by Night Across Borders

Gli ambienti urbani notturni sono davvero pericolosi o è solo l’ombra nera di una cultura che ritrae la donna come possibile vittima?

«Il pericolo può esistere davvero in città, specie se parliamo di spazio dissestato, senza una corretta illuminazione: ma si tratta di pericoli non sono solo diretti alle donne, perché un pavimento sconnesso può essere pericoloso per una persona anziana o diversamente abile. Ciò che cambia rispetto alla percezione del pericolo di cui parlo attraverso “Cities by night” è il fatto che l’oggetto del discorso sono le donne, ritratte come vittime. In termini foucaultiani e filosofici è un modo per farle sentire costanti prede di pericolo: è una strategia di controllo. In questo senso invece, il progetto pone le donne in un ruolo attivo, rendendole padrone dello spazio che attraversano e di cui si riappropriano».

Da quali input nasce “Cities by night”?

«Il progetto è nato nel 2013, in un periodo di residenza a Parigi, e da subito è scaturita l’idea di proporlo in maniera da avere uno sguardo corale. All’epoca stavo lavorando già sulla mappatura e il posizionamento del corpo nello spazio. Nello specifico, ho messo insieme una serie di esperienze pregresse, tra cui quella che mi aveva segnato più di altre: nel 2006 ero a Bruxelles, e quando tornavo da casa a piedi, attraversavo un quartiere che reputavo molto sereno. Invece, ad un certo punto, mi venne riferito che il quartiere non era sicuro da attraversare a piedi in quanto donna, e iniziai a sentirlo pericoloso. In maniera incosciente, avevo dato spazio alle paure e ai pregiudizi di qualcun altro di influenzare e trasformare la mia esperienza reale: avevo permesso a quel pregiudizio di “inquinarmi”».

Come si struttura la performance?

«Le donne e chiunque si identifichi nel genere femminile sono invitate a esplorare i quartieri delle proprie città e a tracciare i confini delle zone “safe” su una mappa. In seguito, nel corso della performance, sono accompagnate a distanza da chiunque voglia prender parte al progetto e che segue così il percorso dettato dalla performer».

Credi che i propri preconcetti possano inibire la percezione del corpo nella città?

«Sì, se la tua testa ha già stabilito dei limiti, sai già che il tuo corpo si fermerà. È interessante sotto questo aspetto ciò che precede l’atto performativo: do sempre alle performer tre, quattro giorni per mappare lo spazio. Nel momento in cui strutturano quel luogo sulla mappa e ragionano sul percorso, accade che si trovino a pensare di poter, pian piano, spostare la propria asticella del pericolo, creando così familiarità laddove non c’era. Il che diventa super empowering per chi sta vivendo il progetto. Si scardinano dei meccanismi proiettivi sui quartieri “off limits” perché nel momento in cui conosciamo quel luogo, quello spazio diventa nostro, ci familiarizziamo».

La città e l’architettura possono giocare un ruolo attivo per aiutare le donne a “svuotare” questa percezione del pericolo?

«Sì, credo che si possa cercare di cambiare l’aspetto urbano per farci sentire più sicure, attuando delle azioni pratiche: una migliore illuminazione o servizi di taxi gratuiti di notte. È necessario che ci sia uno sguardo degli uni sugli altri, oltre che il cambiamento della mentalità patriarcale che indubbiamente pensa di avere il controllo dei nostri corpi, sia attraverso la violenza oggettiva, quella fisica, sia con quella psicologica, all’interno della quale far rientrare la percezione del pericolo. Infatti, anche se il progetto si instaura sulla differenza tra pericolo e percezione di pericolo, non è un progetto sulla paura, ma su come gli spazi vengano percepiti. Ne possiamo dedurre che anche la percezione è già violenza».

In che modo?

«Far sì che una donna continui a non sentirsi sicura degli spazi che durante il giorno vive e conosce, e permettere che si autocensuri un’esperienza totale come quella che potrebbe fare un uomo, per me è già violenza».

Cosa può aiutare a convertire la sensazione del pericolo in una percezione più consapevole e dunque, più attiva dello spazio urbano?

«La percezione è legata al tuo corpo situato, il tuo corpo non è neutro, lo spazio non è neutro. Nel momento in cui conosciamo lo spazio, è facile conoscerlo e sentirsi a proprio agio.La violenza è spesso dentro casa, molto meno frequente che nella città: questo è l’istinto provocatorio del progetto. Il che fa scaturire una domanda: perché allora avere paura?  È un sistema di controllo».

Questa presa di coscienza appare nelle persone che tu hai coinvolto?

«Alcune sì, perché lo fanno in maniera più fisica ed esperienziale, dato che spostano “i punti di paura” nella loro città. Per altre, avviene soprattutto nel momento laboratoriale, dove cerco di far emergere alcune consapevolezze».

Senza tono di sfida machista, Valentina Medda non porta avanti un vessillo o una verità conclusa: le sue performer sono esse stesse punti interrogativi, dubbi che camminano, ma con le quali buttare giù, quartiere dopo quartiere, limiti interiori e sociali. Il teatro monotono di donna/vittima e uomo/aguzzino si smantella attraverso la consapevolezza e uno sguardo lucido e combattivo che reclama il corpo delle donne in quanto protagoniste attive dell’ambiente urbano.

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