03 dicembre 2014

Grandissimo Lucio!

 
Dalla Modern Art Agency al Terrae Motus. Ecco la storia del gallerista napoletano che intuì la bellezza della sua città e ne fece fonte di ispirazione per l’arte. Nel mondo

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Far sedere allo stesso tavolo due personalità eccentricamente opposte come Andy Warhol e Joseph Beuys, potrebbe sembrare opera di un irresponsabile. Uno scherzo, un po’ da guaglione napoletano, un po’ da maestro di cerimonie distratto, tirato all’insaputa del sacerdote della cultura pop e dello sciamano dell’antroposofia. Invece, nonostante la data del primo aprile 1980, l’intuizione fu giusta e la fotografia dei due artisti che si stringono la mano, tra le statue dei leoni di piazza dei Martiri, zona nevralgica del sistema dell’arte napoletano, rappresenta una delle più profonde sintesi concettuali del velocissimo XX Secolo. 
Nascosta dalla staticità dell’immagine, si cela una storia di incontri e collaborazioni che inizia nel 1979, a Düsseldorf, prosegue al Guggenheim di New York e (non) conclude a Napoli. Ancora oltre, più in là degli avvenimenti, ci sono il tempo, le parole, le coincidenze e, questa zona magmatica, liminale tra cose e corpi, la potrebbe descrivere, a tinte forti, Lucio Amelio, studente svogliato, traduttore all’occorrenza e gallerista per necessità ma, soprattutto, inquieto sperimentatore di contesti. 
Allestire una mostra dedicata alle azioni di Lucio Amelio, ovvero a un passato mitico, tuttavia non sedimentato e attivo nell’attualità, è un’operazione problematica, nella metropoli che, forse più di ogni altra, vive di continue frizioni con la cronologia e nella quale la concezione del presente riesce a mettere in crisi ogni filosofia della storia. Il MADRE ha raccolto la sfida, che serpeggiava come un’ipotesi latente nel tessuto culturale della città, un’emergenza non solo localmente identitaria ma ramificata oltre confine, da affrontare con coraggio e competenza. 
Joseph Beuys, La rivoluzione siamo noi, 1971. Photo © Amedeo Benestante.
Dunque, “Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia”, a cura di Andrea Viliani e Paola Santamaria, assume strutture molto diverse, a seconda delle stanze e delle distanze, del punto di vista e dell’angolazione. Le date – dall’anno dell’apertura, nella sua casa a Parco Margherita, della Modern Art Agency, fino all’istituzione della Fondazione Amelio, da parte delle sorelle Anna, Lina e Giuliana – sono state usate come estremi concettuali di una metodologia di intervento nel discorso dell’arte che ha sempre tentato di coniugare ambiti diversi, sperimentazione e istituzione, responsabilità territoriale e vocazione internazionale, intervento nel sociale e impegno intellettuale. Allora, temi personali e motivi collettivi costituiscono la forma di questa mostra, tanto ambigua quanto affascinante, simile a un organismo ibrido tra sfera pubblica e dimensione privata, con missive di accordi nelle quali si citano quelle opere che, entrate nella conoscenza collettiva e transitate per la Galleria Amelio, sono state, puntualmente, esposte. Come sfogliando un libro di storia dell’arte, con inserti di brani quotidiani, oggetti e carte si affastellano e si sovrappongono negli spazi dedicati, all’ultimo piano del museo d’arte contemporanea, «che proprio non potrebbe esistere, senza Lucio Amelio», afferma Viliani. 
Mario Franco, Fotogramma dal film Andy Warhol Eats, 1976. Courtesy Mario Franco
Molte cose non sarebbero state, senza i centri propulsori e aggregatori della Modern Art Agency e della Galleria in piazza dei Martiri dove, dal 1969, spostò l’attività espositiva. E senza l’intraprendenza delle competenze e l’istinto delle personalità, quali Dina Carola, Raffaello Causa, Germano Celant, Vincent D’Arista, Filiberto Menna, Giuseppe Morra, Achille Bonito Oliva, Marcello e Lia Rumma, Pasquale Trisorio, che Amelio, nervoso interlocutore e piacevole osservatore, voleva includere in un contesto non unitario ma esperienziale. Tendenza che era manifestazione esteriore di una curiosità insanabile per tutte le espressioni, fossero le grafie sottili di Cy Twombly o le passeggiate liberatorie di André Cadere, le sovrapposizioni materiche di Robert Rauschenberg o quelle ludiche di Pino Pascali. L’elenco delle mostre è spropositato: Vito Acconci, Carlo Alfano, Berndt e Hilla Becher, Christo, Dan Graham, Jasper Johns, Piero Manzoni, Dennis Oppenheim, Vettor Pisani, Ernesto Tatafiore, è come sfogliare l’indice analitico di un’enciclopedia dell’arte. Leggere le lettere scambiate con Lucio Fontana, per l’allestimento di una personale mai fatta, lascia immaginare tutte quelle che avrebbe voluto organizzare, ma che sono rimaste solo in cantiere. 
Le opere di Francesco Clemente, Luciano Fabro, Gilbert & George, David Hockney, Jannis Kounellis, Nino Longobardi, Lea Lublin, Mario Merz, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Gerhard Richter, Lawrence Weiner, Gilberto Zorio, tracce persistenti delle mostre organizzate tra il 1965 e il 1982, si susseguono nelle sale con un ritmo incalzante, in un caleidoscopio di materiali, concetti, anni e personaggi, dall’astrazione alla figurazione, dall’Arte Povera alla Pop Art, dall’Arte Concettuale a quella performativa. Non solo testimoniando la febbrile attività organizzatrice dell’uomo e la sua dedizione alle ispirazioni artistiche, ma delineando i tratti storici di un’epoca particolarmente felice per la città – meta privilegiata degli artisti più significativi della seconda metà del Novecento – oltre che i gusti e le inclinazioni del collezionismo napoletano e campano.
Lucio Amelio, veduta della mostra Le armi di Pino Pascali, 21 dicembre 1970. Courtesy Archivio Amelio. Photo © Mimmo Iodice.
Ovviamente, grande risalto è stato dato al rapporto con Beuys e Warhol, un dialogo ironico, sopra le righe, come documenta la mostra Beuys By Warhol, inaugurata nella sua galleria di piazza dei Martiri, nell’aprile del 1980, in occasione della quale il volto dell’artista tedesco venne riprodotto nello stile tipico della Pop Art. 
Pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, una devastante scossa si abbatteva su Napoli e sui territori dell’Irpinia e della Basilicata e anche la storia di Amelio arrivò a una svolta, con Terrae Motus. Così Amelio descriveva la genesi dell’idea: «Quella notte stessa ricevetti le prime telefonate. Gli artisti chiedevano: possiamo fare qualcosa? Subito ebbi l’idea che l’arte c’entrava in qualche modo. Si doveva rispondere all’evento catastrofico. C’era dell’energia nell’arte, tanta energia da potersi contrapporre a quella scatenata dalla Terra». Amelio riuscì a coinvolgere, in questo particolare progetto di collezione espositiva, più di 60 artisti, tra i quali Miquel Barceló, Joseph Beuys, Tony Cragg, Enzo Cucchi, Luciano Fabro, Gilbert & George, Richard Long, Nino Longobardi, Robert Mapplethorpe, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Gerhard Richter, Emilio Vedova, Andy Warhol, che progettarono 74 opere ispirate alla tragedia. 74 frammenti, omaggio ai morti e ai vivi, poesia delle macerie e della polvere. 
Lucio Amelio comprese la bellezza inestinguibile di Napoli e la propose come fonte di ispirazione per l’arte. 
A venti anni dalla prematura scomparsa, la città ha iniziato a ricambiare il favore. 

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