28 aprile 2015

Il tempo al lavoro

 
Due fotografi: uno francese, Yves Bresson, e l’altro italiano, Massimiliano Camellini, fanno i conti con il declino industriale e l’idea (sfumata) di progresso. Accade a Saint-Etienne

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Attraversare la storia, ripercorrendo i passi dell’uomo è sempre un’occasione di riflessione. Il punto di partenza, in questo caso, è la fase del declino post industriale che ha mostrato tutte le sue fragilità, a poco più di centocinquant’anni di distanza dalla sua teorizzazione positivista che riponeva fiducia illimitata nel progresso. 
Messa da parte la tentazione di una divagazione nostalgica, di una tristezza del non ritorno, l’orizzonte di obiettività si fa più vasto. Ecco allora intrecciare i fili di un percorso industriale che vede protagonisti l’uomo, quanto la tecnologia e il progresso, attraverso i lavori di due fotografi – il francese Yves Bresson (1950, vive e lavora a Saint-Étienne) e l’italiano Massimiliano Camellini (1964, vive e lavora a Reggio Emilia) – che si ritrovano vis-à-vis nella mostra La suite du Temps / Il tempo al lavoro. 
Entrambi gli autori traducono con rigore e onestà intellettuale i due cardini di visibile e invisibile, ovvero l’allusione all’ascesa e alla fase di massimo splendore produttivo del processo industriale, e la descrizione del suo attuale stato di declino.
Curata da Martine Dancer-Mourès al Musée d’art moderne et contemporain de Saint-Étienne Métropole (fino al 17 maggio) – il secondo museo d’arte contemporanea più grande della Francia, diretto da Lóránd Hegyi – la mostra è inserita, in coincidenza con l’inaugurazione della Biennale del Design, nell’impegnativa programmazione primaverile che include le esposizioni di Lee Bul, Jonathan Lasker, Serse e dei giovani designer Hye-Yeon Park e Seung-Yong Song.
Yves Bresson, L'éveil de l'oubli V, 2011-2014 (Courtesy the Artist)
Non è certo un caso, poi, che la città stessa vanti un glorioso passato industriale di cui c’è traccia in diversi luoghi d’interesse artistico, storico e socio-antropologico, tra cui l’Hôtel des ingénieurs, il Musee d’Art et d’Industrie e, in particolare, il suggestivo Musée de la Mine du Puit Couriot.
Bresson e Camellini hanno in comune anche la capacità di tradurre visivamente la densità emotiva della sospensione. Due progetti diversi i loro, in cui la scansione del tempo è quasi impercettibile. 
«Questo raddoppiamento del tempo implica un raddoppiamento delle esperienze, dei vissuti, delle costellazioni e delle emozioni umane – scrive Lóránd Hegyi nel catalogo edito da Hapax – È un teatro di vita in cui gli attori non si trovano più sulla scena, ma nel regno dell’immaginazione, della memoria, della fantasia».
Il percorso inizia con la serie a colori L’éveil de l’oubli che Yves Bresson ha scattato tra il 2011 e il 2014 tornando più volte a fotografare la fabbrica di lame e falci di Pont-Salomon, villaggio che dista 24 km da Saint-Étienne. Nell’Ottocento la fabbrica impiegava tra i 300 e i 350 operai, oggi ne rimangono solo quindici, ma le officine che conservano lo chassis architettonico originale, sono definitivamente ridotte al silenzio e al freddo. Da anni, infatti, l’attività si limita al solo assemblaggio degli attrezzi agricoli, concentrato in un’unica ala del vasto complesso.
Massimiliano Camellini, Leumann 10, 2010 (Courtesy of the Artist)
Il titolo stesso della serie – che in italiano suona “il risveglio dell’oblio” – stimola un preciso ritmo dialettico di cui la fotografia diventa non solo testimone, ma protagonista essa stessa nel meccanismo di risveglio, o meglio di “veglia apparente”.
Bresson si avvicina al soggetto, guardando attraverso il mirino in direzione della materia per immortalare gli strati di ruggine – una sorta di palinsesto della memoria –  i frammenti di oggetti: un paio di occhiali, una sedia, un’incudine, una fila di tenaglie. A creare il corto circuito è il verde saturo di rampicanti che danno una nuova definizione al racconto nel riappropriarsi di uno spazio che l’uomo ha via via abbandonato. 
Dopo aver fotografato, l’autore mette da parte le sue fotografie, lasciando che si sedimentino. Questa parentesi gli permette di guardarle, successivamente, con rinnovata curiosità, quella dell’esploratore alla scoperta di un nuovo tesoro. La semioscurità dei luoghi, in cui la luce filtra dalle grandi vetrate (che malgrado i numerosi vetri rotti, recano ancora le tracce dello strato di vernice nera o blu scura applicata durante la seconda guerra mondiale per scampare ai bombardamenti) accentua una sensazione che rimanda alla sacralità del luogo religioso. Le fabbriche, in un certo senso, sono le cattedrali del XIX secolo.
Massimiliano Camellini, Leumann 2, 2011 (Courtesy of the Artist)
Analogamente al collega francese, Massimiliano Camellini è più volte entrato in solitudine, tra il 2010 e il 2012, nello storico stabilimento tessile Leumann di Collegno (Torino). 
«Ho provato sempre la stessa sensazione – spiega Camellini – anche l’ultima volta che sono tornato per fotografare gli esterni, perché ormai all’interno non era praticamente rimasto più nulla. Era come se ci fosse una presenza-non presenza. Sono stato preso da un forte sentimento di nostalgia per il momento in cui c’erano ancora le persone al lavoro. Mi sentivo quasi di aver fatto parte di un qualcosa che si era fermato anni prima. Non mi sentivo un intruso, tutt’altro».
In Ore 18. L’orario è finito egli descrive la fine di un sogno, quello di Napoleone Leumann che fondò il cotonificio nel 1875. Al bianco e nero, nella gamma di grigi, è affidata la variabile dei sentimenti. Polvere, muffa, ragnatele, intercettate dal suo sguardo non facevano parte dello scenario quando, tre anni prima, l’attività si era fermata per sempre. Il vuoto, in realtà, è solo apparente, perché la presenza dell’uomo è molto forte, benché delineata indirettamente attraverso chiavi, scarpe antinfortunistiche, come pure il cartello “fuori servizio” sul vecchio ascensore e i rotoli di stoffe. Sono proprio queste stoffe neutre che diventano il simbolo dell’interruzione del ciclo produttivo, perché sono tessuti che non saranno mai tinti.
Manuela De Leonardis

in alto: La suite du temps – installazione foto di Massimiliano  Camellini (foto Manuela De Leonardis)

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