26 maggio 2012

La feconda inattualità dell’artista

 
In un momento critico come quello che stiamo vivendo è urgente invertire la rotta. Anche nell'arte. Recuperare il passato per collocarci nel presente. La lezione viene dal cinema e da molti giovani artisti italiani. Che non hanno paura di essere se stessi. Un suggerimento per musei, gallerie e collezionisti [di Ludovico Pratesi]

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Qual è oggi il giusto rapporto con il passato, un complesso fardello che sembra gravare come un macigno sulla nostra penisola? Nel pieno dell’era wi-fi, dove la vita di una persona sembra misurarsi sul numero dei contatti su Facebook, possiamo davvero fare a meno della memoria? Reso immemore da vent’anni di videocrazia innamorato di una tecnologia che lo allontana ogni giorno dalla realtà, illudendolo di vivere una favola on line – sorta di telenovela che soddisfa un finto individualismo esibito in società, ma in realtà fondato sul terrore di non esistere fuori dal gruppo – l’italiano si è convinto di poter eliminare la storia. Cancellata o rimossa a favore di un “presente connesso” che ha eliminato il passato, prossimo o remoto che sia. Un tempo che vede il nostro popolo convinto di dover per forza essere internazionale e lo obbliga ad adeguarsi a regole che non gli appartengono pur di soddisfare il proprio complesso di inferiorità nei confronti degli altri, americani, tedeschi o cinesi. Ma siamo sicuri che l’abnegazione della propria identità a colpi di “talk”, “meeting”, “brand”, “start up” sia davvero la strada giusta per essere più forti e convincenti?

Se andiamo ad analizzare le scelte degli artisti, scopriremo comportamenti opposti, che vanno invece verso una riappropriazione consapevole e feconda della storia, uno sguardo indietro capace di cogliere i suggerimenti e le esperienze cristallizzate nei luminosi esempi dell’arte del passato per trasferirle con intensità creativa nel presente. Qualche esempio? Nella sua ultima mostra personale “Chora”, presso la galleria Francesca Minini di Milano, Giulio Frigo ha allestito una suggestiva messa in scena che evoca uno spettacolo illusionistico basato sull’idea della pittura come gioco di prestigio, in grado di evocare un sistema di incantesimi percettivi e concettuali.

Frigo ha presentato un gruppo di opere ispirate alla complessità di un immaginario che guarda alle icone bizantine, ai dipinti simbolisti e alle tavole rinascimentali, attraverso un fil rouge basato sulla ricerca del senso profondo dell’opera e sulla capacità evocativa dell’immagine. Pensiero condiviso anche da Sergio Breviario, che costruisce complesse installazioni concepite come vere e proprie “macchine della visione”, in grado di modificare il normale processo di percezione visiva di un volto femminile per aumentarne l’ambiguità concettuale fin quasi a sconfinare nell’esoterismo, muovendosi su una traiettoria di pensiero che appartiene alla storia dell’arte italiana, da Leonardo da Vinci a Gino De Dominicis.

I riferimenti presenti nei dipinti di Luca Bertolo, concepiti come il risultato finale di un processo mentale che scaturisce dalla possibilità di pensare la pittura come un precipitato (mi si perdoni il termine chimico) di esperienze della visione, spaziano dalla pittura romantica tedesca all’impressionismo francese. Un sentire vicino a Pietro Roccasalva, che fin dai primi anni Novanta inserisce l’elemento pittorico come una delle diverse tappe dell’itinerario di formazione dell’opera, grazie ad un’accurata conoscenza delle personalità più dirompenti nell’esprimere il disagio esistenziale che caratterizza l’essere umano nel Novecento, da Otto Dix a Francis Bacon. Uno sguardo di Giano, rivolto al passato per costruire un futuro più ricco e consapevole, lo ritroviamo nei minuziosi disegni a matita di Chiara Camoni, basati sulla paziente e ossessiva ricostruzione di dettagli difficilmente riconoscibili tratti da dipinti di Donato Bramante, fino a stravolgerne il significato invitando l’osservatore ad esaminare la trama della pelle di un Cristo in croce, o nelle recenti sculture di Francesco Carone, che si impadroniscono dei volumi e delle proporzioni di celebri coppie della storia dell’arte (dai Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck al Sarcofago degli Sposi conservato al Museo Nazionale Etrusco) per trasferirle in opere tridimensionali di sapore minimalista, dove la componente simbolica è concentrata in dettagli quasi invisibili. Un sentire che accomuna questi artisti in un esercizio di rilettura del passato non in chiave citazionista e postmoderna ma interpretativa e simbolica.

    

Mi fa piacere constatare che questo atteggiamento è presente anche nel linguaggio cinematografico. Un ottimo esempio in tal senso arriva dall’ultima pellicola dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, che recupera il rigore formale e l’essenzialità del cinema neorealista, sottolineando la capacità di un gruppo di detenuti del Meridione di immedesimarsi negli attori del Giulio Cesare di Shakespeare, con una recitazione intrisa di un’autenticità positiva e coinvolgente, così diversa dal presunto realismo delle squallide e disperate esistenze dei protagonisti di Grandi Fratelli, Fattorie e Isole dei Famosi, che per anni è sembrato rappresentassero la triste condizione degli italiani. Il premio vinto al festival di Berlino ci fa ben sperare nel futuro: smettiamo di negare la nostra identità e riappropriamoci della storia, un serbatoio di esperienze sempre più preziose per fugare le paure del presente e costruire il futuro con coraggio e serietà.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te lo sei perso? Abbonati!

1 commento

  1. Cosa differenzia una rilettura del passato in chiave interpretativa e simbolica dallo sterile pastiche citazionista tipicamente postmoderno? A mio parere, molto banalmente, una concezione del passato più vicina all’ideale ciceroniano di “historia magistra vitae” che a un sapere nozionistico dal gusto quasi alessandrino, fatto di conoscenze spendibili solo attraverso l’improduttivo sfoggio del rimando raffinato. In altre parole, la differenza sta nel legame con il presente. La conoscenza del passato (della storia come della storia dell’arte) può essere puro repertorio di contenuti per la costruzione di narrazioni e immaginari estetici che nulla insegnano sull’oggi e hanno la sola utilità di condire con spezie vintage o rétro i prodotti gastronomici dell’industria culturale. Al contrario la costruzione dell’identità che passa per il recupero consapevole dell’esperienza storica agisce sul presente modificandolo e consente la riappropriazione del futuro. Ovviamente ciò implica un processo di attribuzione di significato alla propria esistenza: il vuoto etico e morale (nell’accezione più laica possibile) priva l’uomo di ogni scopo e finalità e annulla l’idea di progresso. Se l’attualità dell’arte si dovesse misurare in relazione alla sintonia con le mode e i fenomeni di costume, allora la sua inattualità sarebbe feconda. “Attuale” è invece ciò che “è in atto” nel presente e che, agendo appunto nel presente, è in grado di modificarlo. In questa accezione, un’arte inattuale è depotenziata, ridotta a orpello. Quindi l’attualità dell’arte non esclude il patrimonio della conoscenza storica, anzi è l’unica strada per la sua effettiva valorizzazione. Sarebbe interessante scoprire la portata della ricerca storica condotta da alcuni degli artisti citati da Pratesi, cercando di approfondire le motivazioni alla base della loro attualità/inattualità. Lo dico senza alcun intento polemico.

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