30 giugno 2012

La fotografia sfocata di una “Re-generation”

 
Al Macrotestaccio si è appena aperta la mostra che vuole fare il punto sull'ultima generazione di artisti romani. Il buon allestimento e la presenza di diverse opere riuscite non bastano a nascondere un'operazione criticamente fragile e troppo dilatata. Come ogni antologica rivela scelte soggettive, per definizione discutibili. Ma forse tornare a discutere è uno degli obiettivi di “Re-generation” [di Paola Ugolini]

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Roma, la città eterna, nei secoli è stata la culla e la fucina di movimenti artistici importanti, gli anni Trenta con la “prima” Scuola romana di Scipione e Mafai, gli anni sessanta con i “maledetti” della Scuola di piazza del Popolo: Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Tano Festa e Franco Angeli. La fine degli anni Settanta con Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola de Maria e Mimmo Paladino che scelgono non solo la pittura come mezzo privilegiato di espressione artistica ma, soprattutto, la barocca e decadente capitale d’Italia come città d’elezione cercando quindi nelle loro opere il rapporto con la storia e il passato. 
Dal 1982, a via degli Ausoni 3, nell’ex pastificio Cerere, un gruppo di pittori nati fra il 1952 e il 1956 danno vita a una nuova Scuola Romana, la terza in ordine cronologico, più romantica e, allo stesso tempo, più metafisica delle precedenti. 
Oggi, 2012, dopo anni in cui la città eterna è stata appannata da una sorta di grigiore intellettuale diffuso, con una netta predominanza creativa di città nordiche artisticamente più dinamiche come Milano o Torino, la situazione artistica della capitale è nuovamente vitale. Due musei di arte contemporanea, il Macro e il Maxxi, spazi no-profit che però, dopo un periodo di notevole vitalità, ora purtroppo attraversano una crisi profonda, fondazioni private, gallerie giovani e propositive hanno alimentato con nuova linfa vitale il tessuto connettivo del sistema dell’arte romano. 

Un censimento della nuova generazione dei trenta-trentacinquenni era quindi non solo doveroso ma necessario. Il compito, non facile, di selezionare i 33 artisti in mostra, più altri 17 che parteciperanno al programma di performance e video, è stato affidato a due giovani curatrici romane Maria Alicata e Ilaria Gianni. Selezionare è una parola ingrata dato che di per sé implica il concetto di esclusione, onore al merito quindi per chi si è preso la responsabilità di farlo per poter realizzare questa mega-collettiva, dove l’unico filo conduttore è l’appartenenza generazionale. Ma basta l’appartenenza generazionale senza un’approfondita intenzione progettuale per fotografare il momento? E questa è la critica che si può muovere all’operazione, aver fatto una selezione troppo aperta e apparentemente poco strutturata concettualmente che dilatando la scelta ne rischia l’indebolimento. 

Pur non potendo più parlare di gruppi o di scuole, ci sono dei massimi comuni denominatori che emergono nel lavoro dei nuovi emergenti, nonostante l’eterogeneità delle proposte, e che fanno capo ai “padri nobili” dell’arte contemporanea italiana. Artisti eccezionali come Fabio Mauri, Alighiero e Boetti, Gianfranco Baruchello, il primo Pascali disegnatore e pubblicitario, lo scultore marchigiano Eliseo Mattiacci che a Roma ha mosso i suoi primi, significativi passi e Luigi Ontani, l’artista che ha fatto di se stesso un’opera d’arte, sono i riferimenti “storici” scelti dalle curatrici con cui far dialogare i lavori dei giovani artisti romani. Per alcuni questa filiazione è più evidente che per altri, certamente i disegni ironici dell’opera I senza nome di Marco Raparelli con cui l’artista ha riempito due muri dello spazio espositivo creando una vitalistica esplosione di segni devono molto a quelli di Pascali, mentre, a mio avviso, il giovane Tomaso de Luca, pur avendo il corpo, il suo corpo, fra i fulcri della sua indagine artistica ancora è ben lontano dal potersi misurare con un maestro del genere come Luigi Ontani. 

Perfetto l’allestimento, che certamente deve aver presentato non pochi problemi, le opere non si sovrappongono annullandosi, un rischio che è sempre presente nelle grandi collettive, e il primo colpo d’occhio entrando nei padiglioni è di equilibrio. Spiccano per potenza visiva e per concettuale e intrinseca poetica alcuni lavori fra cui La cera di Roma di Alessandro Piangiamore, realizzato appositamente per l’esposizione: quattro lastre rettangolari di cera che sembrano dei marmi di scavo arrivati da un passato remoto e prezioso; l’indagine pseudo-scientifica di Luana Perilli sul comportamento sociale di una colonia di formiche; cinque della serie di nove opere realizzate con il “decoupage” su disegno di Pietro Ruffo della serie Political Gymnasium in cui l’artista riproduce delle vignette riprese dalle riviste politico-satiriche dell’Ottocento sul tema della libertà individuale. 

Il video di Ra di Martino Copies recentes de paysages anciens in cui l’artista continua il lavoro sulle “controfigure dei luoghi” prendendo come soggetti gli stranianti set cinematografici abbandonati di serie famose come quella “cult” di Guerre Stellari che ancora resistono all’usura del tempo e del sole del deserto marocchino. Un episodio rimasto ancora oscuro della storia recente della nostra Repubblica è il soggetto del bellissimo lavoro video del duo goldiechiari dal titolo Una ragazza qualunque (anygirl), che rievoca in una sorta di diario intimo in bianco e nero che si colora a poco a poco, il delitto della giovane Wilma Montesi, una ragazza romana di 21 anni, trovata cadavere sulla spiaggia di Tor Vaianica nel 1953, un omicidio, forse volutamente irrisolto, che all’epoca ebbe un grande rilievo mediatico a causa del coinvolgimento, nelle indagini successive, di numerosi personaggi di spicco fra cui il figlio di uno dei massimi esponenti della Democrazia Cristiana. 

C’è chi rielabora invece le proprie memorie infantili come Guendalina Salini che trasforma la coperta-arazzo azzurrina appesa fra le due navate del padiglione di destra in un materico schermo televisivo in cui campeggia la scritta ricamata “Fine delle trasmissioni”, un’operazione di recupero del proprio vissuto che ci riporta in quel mondo, ormai così lontano da sembrare irreale, in cui i programmi televisivi ad un certo punto della notte cessavano per riprendere il giorno dopo. L’installazione Risonanza di Giuseppe Pietroniro occupa invece il corridoio centrale del padiglione di sinistra, ma anziché restringere lo spazio con la sua presenza lo dilata riflettendolo negli specchi alla base della scultura-padiglione di legno che ricorda i palchi delle fiere di paese. Buone le prove di Paolo Tamburella che trasforma uno dei muri portanti del padiglione in un gigantesco e inquietante collage di gratta-e-vinci, un tragico monumento alla compulsione e al malessere contemporaneo e Nicola Pecoraro che nell’installazione site-specific Pictures of People in Caves copre il suo angolo espositivo di argilla presa dalle sponde del Tevere ricreando una sorta di strano e allo stesso tempo familiare paesaggio primordiale. 

Interessanti anche le presenze di alcuni giovani borsisti stranieri che hanno trascorso a Roma dei periodi più o meno lunghi di studio e di formazione come Jean Jacque du Plessis che, arrivato a Roma due anni fa, già lavora con una galleria importante come quella di Valentina Bonomo. Soom è il titolo dell’arazzo dipinto presentato al Macro, che nella tecnica e nella composizione ricorda  l’eleganza degli arazzi di Boetti o la coppia americana Mary Reid Kelley e Patrik Kelley con il video The Syphilis of Sisyphus e ancora l’olandese Nicole Wermers con una minimale scultura in acciaio che dialoga perfettamente con un’opera “storica” di Eliseo Mattiacci. 
Secondo alcuni questa mostra è un’occasione mancata, secondo altri una “fotografia sfocata” di una situazione che è più complessa di quello che è stato mostrato, comunque è un tentativo di mappatura del “territorio Roma” dei nati dopo il 1969 e come rappresentazione di una “weltanschauung” è certamente un’operazione importante soprattutto per riportare il confronto, la discussione e il dialogo al centro di un dibattito intellettuale che si era perso. 

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