19 settembre 2012

La storia siamo noi

 
Il Castello di Rivoli riapre le porte ai giovani artisti e li mette a confronto su alcuni temi della nostra storia più recente. Due le modalità di approccio: un prelievo dalla memoria, in cui il fatto di cronaca diventa ready-made, e l'elaborazione, attraverso filtri molto soggettivi, della storia. Un'iniziativa meritevole, a partire dall'attenzione che pone su un filone della nostra ricerca artistica. E per la fiducia che gli accorda

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Qual è il confine tra il ricordo personale e la memoria collettiva? In cosa consiste esattamente il passaggio dalla cronaca alla storia? Secondo quali categorie linguistiche la narrazione diventa interpretazione? In un Paese come l’Italia che tende a dimenticare il proprio passato non analizzandolo, ma rimuovendolo per utilizzarlo spesso a fini demagogici, gli interrogativi provocati dalla mostra “La storia che non ho vissuto (Testimone indiretto)” appena aperta al Castello di Rivoli, appaiono non solo opportuni, ma necessari. Curata con attenzione e consapevolezza da Marcella Beccaria, riunisce le opere di sette artisti delle ultime generazioni (Francesco Arena, Rossella Biscotti, Patrizio di Massimo, Flavio Favelli, Eva Frapiccini, goldiechiari, Seb Patane) ispirate alle vicende del nostro Paese dall’inizio del Ventesimo secolo ad oggi.

Come puntualizza la curatrice, «le opere presentate in mostra si riferiscono per la maggior parte ad eventi tragici, tuttora scomodi, la cui ombra si allunga sulla realtà attuale, pesando anche su chi non li ha vissuti personalmente». Al di là della soddisfazione di vedere le sale del terzo piano del castello occupate da artisti italiani emergenti (non accadeva dal 1994, con la mostra “Soggetto-soggetto”), questi lavori puntano il dito su capitoli oscuri del vissuto italico, che ancora oggi non hanno colpevoli (né mandanti) certi. Gli stessi che negli ultimi decenni hanno ispirato film e libri di autori illustri (da Marco Tullio Giordana a Leonardo Sciascia, per intenderci), senza mai essere interpretati dagli artisti visivi. Ora una generazione impegnata e consapevole dell’urgenza di prendere posizione ed affrontare questioni spinose come queste, si misura con una sfida non facile, accolta con la giusta tempestività da uno dei musei più prestigiosi della penisola.

Con quali modalità? Direi che possiamo tracciare due filoni espressivi paralleli. Da una parte il dato storico viene interpretato in maniera tale da risultare trasfigurato e spesso irriconoscibile, assumendo quasi un carattere evocativo, dall’altra invece viene analizzato nei minimi dettagli, fino a trasformarsi in un attivatore di senso. In opere come Gli anarchici non archiviano (2010) di Rossella Biscotti, che riporta brani di testi degli anarchici toscani attraverso caratteri di stampa in piombo, Il Negus ha detto: datemi il leone, tenetevi la stele! (2010) di Patrizio di Massimo, basato su un dialogo tra il duca d’Aosta e il Negus nel 1969, o Muri di piombo (2005-2007) di Eva Frapiccini, che riunisce 50 fotografie scattate nei luoghi di altrettanti delitti accompagnate da stralci di articoli che ne descrivono le caratteristiche, l’episodio di cronaca viene semplicemente decontestualizzato senza essere manipolato dalla memoria personale, come una sorta di ready-made di matrice socioantropologica, di cui vengono messi in evidenza alcuni caratteri specifici.

In altri casi invece la forza dell’opera consiste nella rilettura operata dall’artista, in un complesso cortocircuito tra cronaca e ricordo, memoria personale e dato collettivo. Accade con Cerimonia (India Hotel 870) di Flavio Favelli, che consiste in una sorta di “sudario ” del DC9 inabissatosi nei fondali di Ustica il 27/6/1980, Genealogia di damnatio memoriae (2009-2012) di goldiechiari, composta da tre alberi con le date di stragi e attentati incise sul tronco, a mo’ di albero genealogico, Figlia della Lupa (2012), l’installazione sonora di Seb Patane, che registra una conversazione con la madre che ricorda il suo passato di bimba fascista o ancora L’appartamento (2012), una lapide di ardesia dove Francesco Arena ha descritto la sua abitazione utilizzando le stesse lettere contenute nella lista dei 900 membri della P2.

Non tanto, e non solo, interrogare il passato ma svelarne gli aspetti paradossali e contraddittori, aprendo la strada a percorsi di senso dove cronaca, storia e memoria si fondono per riflettere sul nostro tempo da nuovi punti di vista, lontani da facili demagogie e superficiali giudizi di parte. Questo è il principale merito di una mostra utile per non smettere mai di ricordare.

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