09 luglio 2012

L’estetica della banalità contemporanea

 
Delude la personale appena inaugurata al Pac di Elad Lassry. La ricerca sull'immagine che l'artista israeliano tenta di far passare come opera scultorea non sorprende. Né rappresenta una novità nell'indagine visiva. Si tratta invece di immagini molto vendibili e molto apparentate con il lifestyle della moda. C'è bisogno che mostre del genere approdino al Pac che vorrebbe essere la Kunsthalle milanese? A noi sembra di no [di Jacqueline Ceresoli]

di

Elad Lassry (1977), israeliano, ha studiato cinema all’University of Southern California e al California Institute of Arts, palestra di “artistar” del sistema dell’arte. Abbandonata a vent’anni Tel Aviv, città dove è nato, per Los Angeles, diversamente da molti coetanei del suo Paese, ha bandito l’arte come denuncia sociale, evitando qualsiasi implicazione politica, e si dedica alla costruzione analogica dell’immagine fotografica usando le nuove tecnologie.

Ritaglia e incolla immagini di persone, animali, realtà urbane vintage mescolandole con nuove foto manipolate al computer su fondi dai colori caramellosi: fucsia, giallo, verde, celeste o lilla smaccatamente pop e d’impatto grafico, ricercando un effetto straniante e surreale e inscatolandole dentro cornici decorative apprezzate soprattutto dagli stilisti e designer.

Lassry afferma di essere attratto dalla seduzione dell’immagine e dalle sperimentazioni di fotografia digitale. Alcuni critici lo considerano innovativo perché rappresenta giovani e aitanti modelli in posa plastica, come si fa nella pubblicità della moda, su fondali piatti, dai toni flou e rielabora la posizione “ad affaccio”, tipica nei dipinti rinascimentali. Lo si riconosce per uno Still life patinato, “déjà vu”, eletto a icona di vacuità di troppa arte contemporanea, omologata a codici visivi di tendenza e carente di una reale intuizione formale compositiva. Lassry, sostenuto da una dilagante critica compiacente al marketing dell’arte, più che attenta ai contenuti, ha già esposto nel 2010 a Milano fotografie e film in 16 mm nella galleria Massimo De Carlo. Da qualche giorno ce lo ritroviamo al Pac (Padiglione d’Arte Contemporanea progettato da Ignazio Gardella nel 1954), consacrato dall’Assessore Stefano Boeri a Kunstalle espositiva di artisti di fama internazionale, dove si ripresenta con una personale di opere che vanno dal 2007 al 2012, decisamente imperdibile per il pubblico fashion-victim milanese, che ama l’arte in bilico tra pubblicità e banalità patinata, algida e distaccata. Perfetta, insomma, come un’immagine di Vogue.

Nella mostra, curata da Alessandro Rabottini, si trovano immagini fotografiche seducenti che non spiazzano più nessuno, né tanto meno provocano turbamenti estetici o riflessioni sulla filosofia del vedere o sull’ambiguità dell’immagine, parole vuote di un linguaggio critico vacuo e povero d’indagine analitica che metta in evidenza il valore dei contenuti dell’opera.

Le mie immagini sono sculture – dichiara però l’artista – ma probabilmente non vi stupiranno i banalissimi disegni a carboncino di nature morte di gusto naif e il resto delle opere, tutte di formato tascabile (27 cm per 36), vendibilissime e adattabili a qualsiasi show room o loft di creativi, cui si aggiungono un paio di sculture a muro (vetrine in legno di palissandro) e soluzioni in ceramica di gusto mendiniano, abbinate alle immagini fotografiche di un kitsch estetizzante. Ma non basta. All’entrata del Pac vi danno il benvenuto una serie di foto del noto cane Lassie su fondo azzurro, abbinate a una rete di nastro dello stesso colore, che forse sta lì per trattenere inganni percettivi.

Resterete perplessi di fronte all’opera-site-specific, Untitled (Wall, Milan Blu), situata davanti alla vetrata del Pac, sorvegliata dai metafisici “Sette Savi” di Fausto Melotti e composta da nove piccoli ritratti in bianco e nero di un giovanissimo e affascinate Anthony Perkins, il protagonista di Psycho, affiancati da nove sculture in ceramica. Inutile cercare di capire come questa installazione possa dialogare con il contesto, l’artista preferisce non dare spiegazioni, lasciando libero lo spettatore d’interpretare le sue opere.

Lassry lavora sulla percezione e sull’analisi concettuale di come si sviluppa un soggetto in uno spazio, in cui esperienza e conoscenza si soprappongono in collage di varia natura, in cui abbondano citazioni dotte che vanno da Delaunay alle composizioni grafiche sperimentate dal Bauhaus, dallo Still life di Vermeer a Irving Penn. L’artista è anche affascinato dalla Modern dance di Martha Graham, coreografie dei film anni Venti, manifesti pubblicitari degli anni Cinquanta, grafismi optical in stile anni Sessanta e remix cartellonisti anni Settanta. Niente di nuovo, dunque, quanto a remix.

Forse vi impressioneranno di più le sequenze filmiche in 16 mm, mute, fascinose, ma alla lunga noiose in cui non l’immagine, ma la posa diventa protagonista e il fermo immagine trasforma il corpo in una sorta di pattern visivo in stretta relazione con gli oggetti e lo spazio. Ricorre il motivo della ripetizione che troviamo in alcune fotografie e nelle opere scultoree. Le sue immagini sono una sintesi tra otticità e tattilità, in bilico tra concettualismo, iperrealismo, finzione, mix che caratterizza certe forme di Robert Gober e Richard Artschwager. Sono immagini che, grazie alle nuove tecnologie, assumono spessore volumetrico e tattile. Ma, anche qui, non si tratta di una grande novità. Le cornici dovrebbero avere un ruolo determinante e, secondo l’artista, diventano uno strumento di analisi concettuale anche nel caso delle istallazioni, sempre in relazione all’immagine che sembra estendersi nell’ambiente, trasformando il campo visivo in una macchina per vedere. A questo punto lasciamo a voi di giudicare. Per quanto ci riguarda, suggeriamo di finirla di considerare troppa banalità decorativa come un linguaggio innovativo: non ci crediamo e francamente siamo un po’ stanchi di essere presi in giro. Dal Pac, palestra delle arti visive del presente ci aspetteremmo di più.

10 Commenti

  1. E’ brutta perchè è una mostra polistorolo, senza gusto, senza sapore, una mostra modaiola piena di gente modaiola all’inaugurazione. Davvero non c è bisogno di tutto questo, sembra uno stand di una fiera fatta per De Carlo per vendere robina facile e veloce….

  2. grazie di questo articolo fresco e coraggioso, visto i tempi di conformismo e asservimento alle logiche di lobby che imperversano nel mondo dell’arte

  3. brava Ceresoli, una critica che fa la critica, che dice quello che pensa! non se ne può più delle cartelle stampa rifritte tali e quali, , è ora di tornare alle vere “recensioni”, e questo è un ottimo esempio
    Paola

  4. Una mostra che fa la sua figura, in una galleria del quadrilatero della moda, non certo al PAC,
    c’è bisogno di aria fresca nel mondo dell’arte, grazie Ceresoli

  5. Ci sei andata leggera,
    è una mostra che si dimentica giusto il tempo di imboccare l’uscita.
    Insomma è un concentrato di vuoti a perdere.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui