27 gennaio 2015

Napoli in rewind

 
Con una grande mostra che si snoda tra Castel Sant’Elmo e Villa Pignatelli e con la prossima collettiva all'Accademia delle Belle Arti, la città partenopea riscopre i suoi anni più fervidi

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C’era davvero un tempo in cui Andy Warhol vedeva Napoli come New York, spazzatura compresa. Una sensazione probabilmente familiare agli illustri stranieri transitati prima e dopo di lui in città, la stessa che ritorna passando in rassegna quella parete del Madre piena di inviti che testimoniano l’attività di Lucio Amelio dagli esordi. Si racconta finalmente di Napoli quando era come New York, fucina e non semplice vetrina. Ma stavolta è un racconto senza sentimentalismi, come se davvero – lo  auspicava Bonito Oliva nel 1985-  la città fosse stata evacuata dai suoi luoghi comuni.
In realtà questo racconto, che prende corpo nella mostra “Rewind. Arte a Napoli 1980-1990”, tra Castel Sant’Elmo e Villa Pignatelli (“Blow up” solo fotografia), ha inizio più indietro, esattamente da uno strappo, dalla violenta lacerazione che fu il terremoto del 1980. Napoli coltiva da sempre la sua attitudine internazionale, ma le premesse di apertura alle sperimentazioni artistiche degli anni precedenti maturano negli ’80. Dopo la traumatica paralisi, il contemporaneo si fa presenza costante, attraverso l’avanscoperta di galleristi lungimiranti, una nuova attenzione del sistema pubblico e un collezionismo sempre più attento. Lo strappo fu, ad esempio, il traumatico evento che spinse Lucio Amelio a mettere insieme i contributi di oltre settanta artisti in Terrae Motus, una collezione tematica, polifonica e coraggiosa. Poco dopo, al contemporaneo vengono aperte le porte di un luogo d’eccezione, nasce la collezione di Capodimonte. Quello strappo è, però, lo stesso che ahimé subisce la collezione del giovanissimo Museo Napoli Novecento (1910- 1980) che si interrompe proprio alla soglia degli ’80, probabilmente per tanti motivi pratici, ma per una sola, precisissima, coincidenza simbolica. È da questo strappo che vengono tracciate le premesse per una narrazione che guarda indietro, interpretando un’epoca con il necessario discernimento dell’epoca odierna. 
Nino Longobardi, Senza titolo, 1980 collezione dell’artista, fotografia Peppe Avallone
Di tutto questo, ne abbiamo parlato con Angela Tecce, direttrice di Castel Sant’Elmo, testimone e protagonista di quel periodo storico nonché curatrice della mostra “Rewind. Arte a Napoli 1980-1990”.
L’idea della mostra è un’operazione molto semplice e allo stesso tempo una missione impossibile, spiega Tecce: «Abbiamo cercato di ricreare quell’humus in cui la situazione napoletana cresce», un panorama di certo complesso, dove personalità diverse si formano, incalzate dalle istanze più aggiornate degli artisti stranieri. Per fare ciò, continua la direttrice di Castel sant’Elmo: «Abbiamo chiesto ai galleristi e collezionisti di affidarci delle opere che fossero rimaste a Napoli, non lavori che fossero soltanto passati, ma quelli che qui hanno messo radici».
L’esposizione si articola in due momenti diversi. La prima parte abita gli spazi del museo in continuità con la sua collezione. La storia si delinea. Uno alla volta, sfilano i nomi dei protagonisti napoletani e non, dei loro contemporanei internazionali e delle gallerie di provenienza. Tra le tante, le opere di Kosuth per l’esordio di Lia Rumma, Mainolfi, Sol Lewitt e Toroni presentati dal più giovane Artiaco, e poi Giliberti, Beuys e i riconoscibili grandi lavori di Paladino e Longobardi, fino ad entrare nell’istallazione di Marisa Albanese, datata 1990 e presentata dallo Studio Scalise, una realtà che Angela Tecce ricorda come «uno di quegli spazi più piccoli, meno consolidati, che a Napoli hanno fatto un po’ la storia». Della stessa storia fanno parte molte realtà poco conosciute, come ST-Art, lo spazio off di Marigliano fondato da Ninì Sgambati e presentato nelle sale degli ambulacri insieme al resto della mostra. 
Rewind. Arte a Napoli 1980-1990. Veduta della mostra
La difficoltà degli spazi sotterranei sembra affaticare un po’ la continuità espositiva, che riserva però interessanti contenuti, a partire dal maestoso Shanghai di Luciano Fabro, dalla collezione di Capodimonte o le lussuose ceramiche firmate Ontani, le istallazioni di Sasà Giusto e Massimo Kauffman e la bellissima opera-tappeto di Aldo Mondino, Raccolto in preghiera (proveniente dalla Fondazione Morra). L’esposizione si chiude con un’ulteriore approfondimento, questa volta sulle realtà napoletane non del tutto affermate e sulla vitalità delle generazioni più giovani di quegli anni ’80. L’ultima tappa di questa operazione “non- così-semplice”, è la ricostruzione di due mostre significative: da una parte, “Evacuare Napoli. L’ultima generazione”, curata da Achille Bonito Oliva nel 1985 presso l’Instituit Francais de Naples Grenoble, e dall’altra, il gruppo-mostra Officina Scafati, realtà di provincia, autonoma e di ricerca, che avrà un notevole riscontro nazionale ed un rapido declino. La scelta, motiva la curatrice, è quella di «sottolineare la novità che, per la prima volta, giovani di tendenze ed estrazioni diverse si riuniscono in mostra in uno spazio pubblico».
Rewind. Arte a Napoli 1980-1990. Veduta della mostra
L’impossibilità della missione di cui parla Angela Tecce nell’introduzione del catalogo risiede, inevitabilmente, nell’assunto curatoriale di raccogliere uno sconfinato decennio in una mostra, ed in più con gli esigui fondi disponibili. La limitazione temporale di un decennio è una convenzione che poco concede, ma che ha permesso comunque un taglio critico in grado di tracciare un percorso possibile. Che suggerirebbe, per coerenza e continuità, la possibilità di acquisire parte delle opere nella collezione e che sperimenta, con buoni risultati, un progetto corale di relazione tra i luoghi della cultura a Napoli. Ad arricchire l’esposizione, infatti, l’archivio multimediale consultabile nelle sale. I pannelli interattivi costituiscono il ponte tra tutti i luoghi espositivi appartenenti alla “Costellazione ’80” (Sant’Elmo, Villa Pignatelli, Museo di Capodimonte, Reggia di Caserta, il Museo Madre, Accademia di Belle Arti) e dimostrano, oltre all’impeccabile lavoro di ricerca, l’impellente volontà di fare sistema per promuovere il contemporaneo. Da citare, infine, il notevole lavoro editoriale del catalogo (Arte’m) e la  scelta di affidarne i contenuti ad una generazione di giovani studiosi, critici e curatori, in grado di contribuire con inedita lucidità e fornire uno strumento di approfondimento completo e interessante.

Roberta Palma

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