21 febbraio 2011

QUELLI CHE HANNO GABBATO AI WEIWEI

 
Il collettivo Iocose ha inscenato l’ennesimo coup de théâtre. A subirne le conseguenze? L’installazione dell’artista cinese Ai Weiwei, di scena alla Turbine Hall della Tate Modern. E mentre la paternità dell’opera viene già messa in discussione - con tanto di didascalia modificata direttamente in loco - cogliamo l’occasione per scambiare due chiacchiere con i diretti interessati...

di

Andiamo con ordine: il vostro nome, Iocose, esprime
un desiderio di reagire alle correnti demonizzate della nostra epoca,
individualismo e materialismo. Giusto?

No. A quei tempi, Google riservava una bella pagina bianca
per questo nome, così abbiamo deciso che andava bene.

Cosa rappresentano i collettivi artistici come il
vostro all’interno del panorama artistico odierno, monopolizzato da artistar?

L’idea dell’artistar è estremamente vicina al mito del
genio solitario, un’idea triste e fuorviante. I geni non sono mai esistiti, gli
artisti migliori sono quelli che riescono a descrivere con forme efficaci lo
spirito del proprio tempo, o dei tempi a venire. Persone che si immergono fino
al collo nel mondo di tutti i giorni e ne indagano la struttura e soprattutto
le contraddizioni. Ciò che fa la differenza non è il numero di quanti prendono
parte alla realizzazione di un lavoro, ma la qualità del lavoro che sono in
grado di produrre. Essere un collettivo è un po’ come essere una bottega e una
factory al tempo stesso. In ogni caso non odiamo le star, tantomeno i loro
party.

Il vostro lavoro si divide fra Berlino, Londra e
Brescia. Quella di sfruttare più contesti urbani pare una scelta comune fra i
collettivi (penso ad Alterazioni Video). È una scelta legata più al desiderio
di confrontarsi con una dimensione cosmopolita o all’esclusiva necessità di
allontanarsi dall’Italia?

Siamo proprio dei giovani italiani fuggiti all’estero. Ci
mancano la pizza, la mamma, gli spaghetti e il mandolino, ma incredibilmente
riusciamo a tirare avanti.

L’installazione di Ai Weiwei
Oggi
l’arte deve per forza provocare?

Deve
provocare gravi danni alla salute. La nostra ultima opera alla Tate Modern è
stata accusata di essere nociva, perché pare che i semi di porcellana di
Weiwei, usati in parte per il nostro nuovo lavoro, avessero una vernice
tossica. Vatti a fidare, le cose te le devi fare da solo per stare tranquillo!
L’arte deve far vivere situazioni che nella vita quotidiana per qualche motivo
non sono consentite. Permettere di ripensare il mondo e le sue convenzioni.
Fare arte è sempre stato molto più che parlare di forme, colori e qualità dei
materiali: dai un’occhiata a un qualsiasi quadro di Caravaggio.

Nel 2008 avete presentato l’Empathy Box, una macchina progettata da un fantomatico Ente per le
Religioni Unite in grado di elevare chiunque all’apice spirituale attraverso il
dolore condiviso…

Abbiamo creato un culto senza frontiere, la risposta economica
e casalinga a Scientology. Abbiamo
colmato una richiesta di mercato dimenticata
dalle grandi ditte di videogiochi ed elettrodomestici, confondendole. Non abbiamo tempo per pregare, volevamo cavarcela
alla svelta. Una volta capita questa
esigenza, ci siamo subito dati da fare. E
tutti si sono mostrati entusiasti. Che ci voleva?

Fin dai vostri primi interventi nel 2006 si evince
una chiara presa di posizione nei confronti della dimensione retorica sociale:
i vostri attacchi si sono rivolti indistintamente al cittadino medio così come
al ministro della gioventù Meloni…

Noi siamo grandi amici della Meloni, non ce la toccare.
Lei si era detta entusiasta di salvare lo sperma dei morti. Noi aiutiamo tutte
queste persone che si accontentano di poco.

IOCOSE - Sunflower Seeds on Sunflower Seeds - 2011
Spaziate
da interventi al limite dell’hackeraggio alle “più classiche”
installazioni. C’è un mezzo che vi rappresenta più di un altro o che si è
dimostrato più incisivo?

Abbiamo
sempre dato poca importanza al mezzo, che sia internet, un cane congolese, un
generatore di corrente, dei semi di girasole, una droga fatta in casa o un olio
su tela poco ci importa. Stiamo pensando a una serie di nature morte dipinte a
olio: vogliamo buttarci anche nel mondo dell’arte da arredamento.

Nel vostro ultimo cortometraggio, In the long run, avete inscenato la
morte di Madonna in filo diretto con la Bbc. Che ruolo giocano i mass media nei
confronti dell’arte contemporanea?

I mass media hanno un ruolo fondamentale nell’arte, ed è
lo stesso che hanno nella vita quotidiana. Sono strumenti da sfruttare per le
possibilità che offrono, il trucco è non subirli, ma indirizzarli a proprio
piacimento. Per noi la rete è fondamentale, non potremmo lavorare senza
Internet. Con In the Long Run abbiamo
sperimentato alcune potenzialità di questi mezzi: il progetto è un tentativo di
ricostruzione del futuro, ovvero un’indagine su come gli eventi mediatici
possano essere pre-scritti. Questo non significa che sappiamo già come accadrà
e come verrà narrato un evento come la morte di Madonna, ma che, come scrive
Domenico Quaranta, “il fatto, nella mente dei milioni di spettatori che lo seguiranno
attraverso i media senza averne un’esperienza diretta, prenderà esattamente
questa forma
“.

Ai Weiwei
E quali
sono state le reazioni?

La gente
ci scrive per chiederci se davvero l’abbiamo uccisa noi. Milioni di fan in
Sudamerica non sono convinti che sia davvero morta, ma dicono che viva su
un’isola con Michael Jackson e Mike Bongiorno. Sua figlia Lourdes ci manda le
verifiche da firmare.

Ci
illustrate il vostro ultimo lavoro?

L’opera si intitola Sunflower Seeds on Sunflower Seeds. È un’enorme distesa di
semi di girasole, attualmente esposta nella Turbine Hall della Tate Modern e
promossa dalla commissione Unilever Series. L’opera è molto simile, per non
dire identica, a quella precedente di Weiwei (Sunflower Seeds), ma non ci si confonda. Quella era composta da
semi di girasole fatti di porcellana, la nostra ha anche dei semi di girasole
naturali. Quattro semi. Li abbiamo aggiunti con un lancio di fionda dalla terrazza
della Tate. L’opera nasce da una riflessione su una frase utilizzata da Weiwei
per riassumere il concept del suo lavoro: gWhat
you see is not what you see, and what you see is not what it means
h. Il
nostro intervento modifica l’opera in modo impercettibile all’occhio umano, ma
allo stesso tempo irreversibile. Il lavoro di Weiwei sembra ancora lo stesso,
ma è ormai diventato qualcosa d’altro. Come nel Dipinto che lascia filtrare la luce della sera di Yoko Ono, una
lastra di vetro trasparente davanti a una finestra, che non modifica in modo
sostanziale il paesaggio che si può osservare, ma sottoponendolo alla nostra
attenzione lo rende nuovo ai nostri occhi. Quello che vedi non è quello che
vedi, quello che vedi non è ciò che significa.

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L’installazione di Ai Weiwei alla Tate Modern

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Il video dell’intervento di IOCOSE alla Tate Modern

a cura di renata
mandis

[exibart]

5 Commenti

  1. Ma come siamo ridotti? Siamo ancora quì con l’appropriazionismo e questo pop morboso (sperma dei morti, morte di madonna, ecc ecc)…meglio lady gaga. Sanno molto di Altrazioni Video 2-la vendetta-. Poi, gli artisti italiani che dal paesello vanno alla Tate Modern per esserci anche loro…guarda..latte alle ginocchia….

  2. pensala come vuoi me ne frego nel modo più assoluto, se io fossi stato in ai weiwei ti avrei tirato un diretto in faccia cercando di spaccarti qualche osso, la prossima volta magari ti saresti appropriato di qualcos’altro . il punto non è copiare o meno per rielaborare, ma copiare/rubare per il copiare fine a sé stesso, vuol dire che mi sfidi e poi te la meni pure in modo viscido cercando di giustificarti . una mossa pseudoconcettuale da vermi immondi che vuole vendetta .

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