28 ottobre 2013

Questa nostra vita instabile

 
Dei suoi spazi non facili ha fatto la cornice critica di un’indagine espressa attraverso delle mostre. Questa volta il focus proposto dalla Strozzina di Firenze è sui “Territori instabili” svelati attraverso i “confini e l’identità nell’arte contemporanea”. A dargli corpo sono dodici artisti. Che ci parlano delle condizioni della vita attuale. Delle ferite fisiche a quelle psicologiche, della fatica di esserne cittadini

di

Adam Broomberg & Oliver Chanarin
“This is not a citizen” (questo non è un cittadino). Così termina il video The right of passage del duo artistico Zanny Begg & Oliver Ressler che idealmente chiude la mostra “Territori Instabili – Confini e identità nell’arte contemporanea” alla Strozzina di Firenze. La riformulazione della celebre frase di Magritte (ceci n’est pas une pipe) descrive al meglio il sentimento che scaturisce al termine della visita, sintetizzando con concretezza il concept di tutto il percorso espositivo, articolato in lavori che ben si completano vicendevolmente, mentre crescono emozione e indignazione.
I dieci artisti chiamati a raccolta da Franziska Nori e Walter Guadagnini affrontano in maniera acuta uno dei temi che la civiltà contemporanea, e quindi l’arte che ne consegue, affronta quotidianamente, spesso su indicazione dei tragici racconti della cronaca più crudele.
Gli angoscianti avvenimenti accaduti di recente in questi giorni nel nostro Paese ci portano necessariamente a riflettere sul significato che possono assumere oggi concetti quali appartenenza identitaria, confine e instabilità territoriale che appaiono sempre più svuotati e messi in discussione dalle falle di una globalizzazione incompiuta e vissuta a metà. L’enorme e per niente scontato merito di questa mostra è di consegnare al visitatore una lettura composita della realtà odierna e del tema dell’esibizione che si compie e si sagoma sala dopo sala, immagine dopo immagine.
Jo Ractliffe
È la Strozzina stessa, il primo territorio instabile con il quale confrontarsi. È nella realtà di una città insofferente al contemporaneo in cui quest’isola felice vive e pone radici solide nei sotterranei di un Palazzo grandioso e ingombrante.
La mostra non consegna risposte, non indica soluzioni alle tragedie e all’incongruenza della società odierna, ma pone seri interrogativi. Cambia la prospettiva con la quale si è entrati e forse cambia in parte anche noi stessi. Non ci sono scorciatoie per uscire dalla centrifuga di cruda verità che emerge dai lavori proposti, ma un percorso ben strutturato che ci conduce attraverso temi che non possono lasciare indifferenti.
Nella prima sala sono presentati due video dell’israeliana Sigalit Landau, dove il tema del confine è traslato sulla propria esistenza e sul proprio corpo con estrema crudeltà. L’hula hoop di filo spinato che rotea sul ventre dell’artista ci ricorda il sangue che è versato da secoli in terra santa in nome di confini del tutto teorici e anacronistici. Il mare è il protagonista di entrambi i video: quello di Israele, unica via di fuga priva di barriere e quello Morto con la sua alta salinità che conserva e consuma contemporaneamente il corpo dell’artista immersa in una spirale di cocomeri galleggianti.
Tadashi Kawamata
Il lavoro fotografico di Jo Ractliffe si nutre di silenzi, di vuoti, di carcasse di vita e di paralisi esistenziali che echeggiano nei territori dell’Angola teatri di guerre sanguinose. Le immagini-cicatrici raccontano la solitudine dei luoghi in cui la guerra è passata come una furia dimenticandosi di tutto e di tutti. La distruzione che ne rimane sembra accasciarsi al suolo tra uno spaventapasseri ripudiato e una mina antiuomo dimenticata. Le installazioni instabili di Tadashi Kawamata raccontano la transitorietà di costruzioni incompiute che si aprono al dialogo con strutture architettoniche permanenti e solide. È la percezione del luogo stesso in cui si trovano che si apre a nuove realtà interpretative.
Il viaggio all’interno di Chicago, città fantasma costruita nel deserto a effigie di una città palestinese e utilizzata per l’addestramento dell’esercito israeliano, rappresenta la lucida riflessione concettuale del ruolo della parvenza, del reale concepito come forma unica dell’esistenza. Attraverso tre enormi wallpaper e un video posto al centro della sala, gli artisti Adam Broomberg & Oliver Chanarin indagano, attraverso l’irrisolto conflitto israelo-palestinese, sulla condizione di isolamento di un territorio talmente instabile da non esistere, un non-luogo creato dall’uomo con obiettivi di morte che non appartiene al reale, ma ad un’immagine sbiadita di una oggettività irrisolta e spietata.
Richard Mosse - The Enclave
La visione allucinata e multifocale dell’opera The Enclave di Richard Mosse è senza dubbio il lavoro meglio presentato e di più forte impatto. I sei megaschermi, che raccontano frammenti di reportage nelle terre congolesi in conflitto, fanno apparentemente sbandare l’occhio del visitatore che, in cerca della sicurezza smarrita, è piroettato da uno schermo all’altro lasciando un forte senso di sgomento e destabilizzazione davanti alla violenza subita dal proprio senso del pudore. Attraverso la pellicola aerochrome, che rende tutta la vegetazione inquadrata rosso sangue, e i suoni magistralmente bilanciati da Ben Frost, l’artista con inusuale forza scardina i canoni tipici del racconto di reportage, catapultandoci in una dimensione nuova, più instabile ma più coinvolgente.
Le opere di Paolo Cirio e del duo The Cool Couple sono forse di meno impatto e di più difficile lettura, ma a loro modo interessanti e concorrono attraverso i linguaggi dell’hacking digitale e della ricerca storica a delineare ulteriormente il tema della mostra. Ed è il nostro corpo ad apparire instabile, transitorio davanti agli specchi infranti e ricuciti di Kader Attia. Non più luoghi fisici, ma luoghi interiori che, a dispetto della famelica modernità che fagocita ogni cosa, vengono curati, medicati e restituiti sotto nuova forma. Siamo noi e i nostri vissuti a dover quindi superare l’apparenza temporanea ed effimera.
Paulo Nazareth
Il brasiliano Paulo Nazareth, con il suo lavoro frammentario e multiforme, tratta il tema dell’instabilità correlandola direttamente alla sua arte e alla sua esistenza passata a camminare da un continente all’altro, lasciando dietro di sé residui di arte, pezzi di performance e video, cartoline ironiche e sandali di plastica consumati. La multietnicità vissuta con travaglio dal mondo e l’incongruenza delle leggi che la governano è la ricerca fondante della sua opera che sembra concordare con gli artisti Begg&Ressler: l’instabilità delle nostre vite, l’impossibilità di muoverci liberamente, i limiti coercitivi imposti dai governi ci rendono tutti meno cittadini.

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