30 gennaio 2012

Riciclare, costruire, fare. Quando l’architettura diventa un’arte

 
Al MAXXI di Roma una mostra che rivela le infinite possibilità schiuse dal riutilizzo di vecchi materiali. Per costruire nuovi ambienti e case con un design sofisticato e sperimentale, dall’Europa all’Africa. Ma che mette in luce anche la capacità dell’architettura di farsi disciplina complessa e multiforme. Indicando allo stesso museo che la ospita un metodo nuovo di lavoro. Valido anche per l’arte [di Paola Tognon]

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A volte visitare una mostra significa fare un’esperienza di interpretazione della realtà nella sua dimensione più complessa, quella della ricerca sulla contemporaneità. Spesso queste occasioni giocano con una certa dose di coraggio nel coinvolgere più discipline, mostrando concretamente l’analisi di un tema da più punti di vista.
E’ il caso di Re-cycle – strategie per l’architettura, la città e il pianeta – mostra “di  architettura” al MAXXI (a cura di Pippo Ciorra, fino al 29/4) che apre finalmente questo dispositivo di lavoro, stabilendo più piani di lettura che non perdono di intensità e ricerca, di analisi e intuizione davanti agli sguardi incrociati di chi cerca architettura, arte o design.
Una modalità di costruzione che, strano al dirsi, sembra estranea alle proposte di MAXXI Arte, le cui scelte paiono al momento più attente all’inserimento dell’istituzione nei circuiti internazionali delle mostre (si veda Cittadellarte – Michelangelo Pistoletto oppure l’attuale Indian Highway), che all’elaborazione di propri progetti che ambiscano alla circuitazione in altre sedi. Inaspettata condizione questa che vede l’architettura, accanto alle mostre monografiche e agli ampliamenti dell’archivio, agganciarsi per prima alla piattaforma della complessità, rinunciando al tecnicismo o al mitismo.

Il tema stesso della mostra, Re-cycle, è forse la chiave della riuscita dell’esposizione: ambiente, tecnologie, paesaggio, sostenibilità, invenzione e recupero che hanno in noi un pessimo confronto quotidiano con programmi e approcci tradizionali, esclusioni, costruzioni, mutilazioni, silenzi e inefficienze in ogni ambito. In questa contrapposizione i progetti e le opere in mostra negano la figura del paladino moraleggiante, si discostano dall’azione “ecologica” e dall’opera ambient, dal marketing che segna la moda tutta urbana del roof garden e soprattutto annullano la dimensione milionaria di chi  vanta riqualificazioni straordinarie – con opere d’arte comprese –  mentre affossa il futuro di interi quartieri e periferie. Riciclo, dunque, che non è timida o impotente risposta al disagio ma strategia insita nell’agire umano, operazione di ricerca, ribaltamento di funzioni e priorità, disobbedienza, mescolamento di immagini e pensieri, processo che dissacra il potere del prodotto e la resa del consumo.
Alcuni esempi dalla mostra: due grandi installazioni fatte per Re-cycle nel cortile del MAXXI, la grande capanna/zampa in paglia sintetica dei fratelli Fernando e Humberto Campana – due designer irriverenti nel ribaltare forme e funzioni che provengono da strutture e materiali di tradizione – e Officina Roma, casa realizzata con bottiglie, finestre, barili ed elementi in legno recuperati anche da precedenti allestimenti del MAXXI (Raumlaborberlin). In entrambi i casi si offrono ambienti di accoglienza: il primo, sorta di grande animale di preistorica memoria che accoglie ironico il visitatore; il secondo che nel reinventare una casa con le sue classiche divisioni costituisce un ambiente funzionale ai laboratori per ragazzi in una struttura che sta tra la tana delle bande urbane, gli esterni di Metropolis e le carrozzerie prima dell’elettronica.

Sempre nella mostra la sezione che allestisce le fotografie di Pieter Hugo e l’opera video di Nina Fischer & Maroan el Sani. Le opere di Hugo, realizzate tra il 2009 e il 2010 sotto il titolo di Permanent Error, ci presentano nella più classica delle dimensioni del ritratto, degli anti-eroi di potente impatto ritagliati dal lavoro in una delle più grandi discariche di materiali elettronici in Ghana. I secondi invece, con il video Spelling Dystopia del 2008 – 2009, descrivono attraverso il racconto di diverse generazioni l’isola interamente artificiale di Hashima al largo delle coste del Giappone. Abbandonata nel 1974, dopo essere servita per l’estrazione del carbone ospitando circa 5.000 abitanti e che da allora ha assunto un aspetto spettrale. Re-cycle ironico per il design che gioca misurandosi con la grandiosità dell’architettura, re-cycle poetico e straniante dell’arte che si confronta con realtà lontane nello spazio, ma vicine nelle memorie umane.

Nei due piani interni dove si sviluppa gran parte dell’esposizione che raccoglie circa 80 tra opere e progetti di autori internazionali, si entra nella dimensione più accelerata del progetto dove installazioni, sculture, disegni e fotografie mantengono autonomia di proposizione e attivano nel visitatore una curiosità crescente. Solo due esempi. Lo stupefacente video di Zbigniew Rybczyński, Steps (1987) che movimenta e colora un gruppo di turisti americani nella celebre sequenza in bianco e nero della scalinata di Odessa tratta dal film La corazzata Potemkin: omaggio alla tecnologia che permette di muoversi ai confini del tempo riciclando immagini, dimensioni sociali e artistiche. E l’art project del gruppo Feld72 che nel 2005 – in 24 giorni, con la collaborazione della popolazione locale e un budget limitatissimo – trasforma il complesso abbandonato di Prata Sannita, nel parco regionale del Matese in Italia, in un hotel diffuso, il Million Donkey Hotel tutt’oggi in funzione. Si potrebbero poi raccontare i poetici progetti siciliani di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo o il Dovecote Studio per artisti nel regno Unito di Haworth Tompkins o la più conosciuta Ile Seguin a Parigi riprogettata da Michel Desvigne.
  Unico neo: il catalogo – agile nella dimensione, funzionale, nei contenuti, utile per comprendere ricerche e progetti –  costa uno sproposito. Niente a che vedere con il re-cycle, ma molto con gli appalti.

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