14 maggio 2012

Se il passato è un’intensa prossimità

 
La Triennale che ha inaugurato il rinnovato Palais de Tokyo di Parigi tenta un dialogo tra generazioni ed esperienze diverse. Dove ciò che è stato e l'alterità diventano testi per comprendere se stessi. Perché se nell'arte è stato già detto tutto, forse gli artisti hanno qualcosa ancora da dire esplorando un passato che inaspettatamente è più vicino di quanto si pensi. Ne abbiamo parlato con una delle curatrici, Claire Staebler [di Livia de Leoni]

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Fa parlare di sé il Palais de Tokyo dopo l’audace ristrutturazione degli architetti Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassalo e le due giornate non-stop di metà aprile, assaggio, tra performance e installazioni, alla tanto attesa Triennale d’arte contemporanea che non solo cambia sito, spostandosi dal Grand Palais, ma nome – non più Force de l’Art – ed ideazione. Apre infatti le porte non solo alla produzione contemporanea francese, ma alla creazione artistica tout court. Identità nazionale? Arte civica? Intense Proximité (fino al 26 agosto) è, oltre che titolo della Triennale, un concetto d’organizzazione il cui perno è l’identità multipla e l’autonomia dell’individuo, ma è anche opportunità di dialogo tra generazioni ed esperienze diverse, diventando spazio civico dell’arte in cui non si teme né la fragilità né la libertà d’espressione.

Okwui Enwezor, curatore principale della mostra e direttore del Haus der Kunst di Monaco di Baviera, si circonda di quattro collaboratori per realizzare un progetto collettivo dove ognuno porta il suo modo di vivere l’arte: Mélanie Bouteloup, Abdellah Karroum, Émilie Renard e Claire Staebler. Quest’ultima, già curatrice al Palais de Tokyo, è stata direttrice del PinchukArtCentre di Kiev, è a lei che chiediamo di raccontarci com’è andata. «Ognuno si è inserito nel gruppo di lavoro con le proprie esperienze e ossessioni. Lavorare sul tema della vicinanza per me, che mi sono occupata di performance in spazi pubblici, è stato entusiasmante. Siamo partiti elaborando una poetica dell’etnografia facendo una ricerca su documenti che riguardavano etnografi che spesso sono stati anche ottimi scrittori o favolosi cineasti, come Claude Lévi-Strauss o Jean Rouch. Volevamo mostrare come attraverso documenti scientifici si sia sviluppata l’immagine dell’altro, affrontando la questione dell’alterità. Per esempio nelle foto di Lévi-Strauss vediamo un popolo inconsapevole della modernità, ma in realtà già il fatto di scattare una foto nega quest’ipotesi. Inoltre, lo sguardo della donna fotografata accorcia le distanze, rivelando una prossimità che mostra in quale direzione andava il mondo in quel momento storico fino alla consapevolezza che oggi non ci sono più territori da esplorare. Forse è proprio nei territori della storia e della memoria che ci sono ancora cose da scoprire. Ed è questa una delle dimensioni che abbiamo voluto sviluppare chiamando artisti di tutto il mondo dalle traiettorie incredibilmente variegate», spiega Claire Staebler.

Il percorso espositivo si snoda cronologicamente dai primi decenni del secolo scorso fino ad oggi e adotta come filo conduttore il dialogo tra etnografi e artisti. Si parte, tra l’altro, dalle foto di Claude Lévi-Strauss, per passare a quelle di Walker Evans che diedero un valore artistico al documento, a Jean Rouch con il mitico filmato Les maîtres fous (1955), fino a Timoty Asch, personaggio chiave dell’antropologia visuale, per passare all’universo erotico di Carol Rama, alla pittura aeropostale di Eugenio Dittborn, a Lothar Baumgarten, che abbordando i tempi dell’ecologia, del colonialismo e della percezione dell’altro si riallaccia a Lévi-Strauss, e alle foto in gran formato di Thomas Struth che ci fanno immergere in una natura lussureggiante, rompendo il sogno di una foresta incontaminata che ci trascina in un’esperienza contemplativa, avvicinando la fotografia alla pittura.

Presenti un po’ ovunque, delimitando i diversi spazi espositivi, le griglie di Daniel Buren, pratiche e simboliche s’integrano bene con l’architettura del luogo in cui la luce zenitale circola liberamente all’interno creando inaspettati giochi di ombre. Molti ed interessanti i video tra cui Ivan Boccara con Mémoires de Ntifa (2012), Isaac Julien con Territoires (1984), Bouchra Khalili Mapping Journey (2008-2011) ma anche Laaroussa (2011) di Selma Ouissi & Sofiane Ouissi e Mihut Boscu con Personal Hawking (2011).

Così espone i criteri di selezione Claire Staebler: «Ci interessava che le opere fossero non solo in relazione con la realtà, ma che avessero un aspetto concettuale, formale, poetico o immaginativo. Abbiamo cercato un’arte che passasse attraverso altri canoni di produzione, perché siamo in un mondo dove l’arte sembra un po’ smaterializzarsi. Molte opere, invece, sono state fatte a mano: disegni, pitture e sculture perfino video, per lo più quindi costruite ed installate dagli artisti stessi. E alla fine il solo criterio che ci ha guidati nella selezione è stato l’opera».

Il Palais de Tokyo si apre su tre livelli espositivi più un sottotetto luminosissimo, mentre nel sotterraneo completamente allestito si distribuiscono come in un labirinto sale di proiezioni e ampi spazi vuoti. Qui, tra suoni e immagini, la storia dell’individuo s’iscrive in quella dell’umanità attraverso il tema dell’archeologia e il concetto di reperto sul quale sono intervenuti diversi artisti come Isabelle Corsaro, che ha allestito su tavole una serie di riproduzioni in gesso grigio, Homonymes (2010). Mentre Karthik Pandian con Unearth (2011), tra sculture e film, Land Art ed etnografia, dopo due anni di ricerche nell’antica città precolombiana di Cahokia negli Stati Uniti, ha raccolto ogni sorta di materiale e terra realizzando cinque pilastri monolitici che accolgono lo spettatore in un ambiente che ricorda, tra suoni e luci, quelli del sito archeologico. Ma sono presenti anche molte opere sonore, come per Cross Section of a Revolution (2011) di Haroon Mirza, in cui si esplora l’idea di paesaggio sonoro e il suo potenziale scultoreo.

Il progetto della Triennale ha un po’ della grandeur francese, coinvolgendo altri spazi come il Museo del Louvre con performance di Françoise Vergès, il museo della moda Galliera con una scultura di El Anatsui, il Grand Palais con un’istallazione di Rirkrit Tiravanija, il centro Le Crédac con un’istallazione di Boris Achour, i Laboratori d’Aubervilliers con Pauline Boudry e Renate Lorenz ma anche tanti altri artisti presenti a Instants Chavirés e al centro Bétonsalon.

E non c’è solo arte, ma anche design. È tutto italiano quello presente negli spazi del Palais de Tokyo con la marca del home design Calligaris, e presto arriverà anche un lounge bar, un osservatorio e uno studio di registrazione. Attualmente il nuovo tempio europeo dell’arte contemporanea ospita una decina di artisti, alcuni parte del progetto “Les modules della Fondation Pierre Bergé – Yves Saint Laurent” (fino al 4 giugno), e altri parte delle “Interventions sur le Bâtiment” (fino al 30 dicembre), tra cui Jean-Michel Alberola e Ulla Von Brandenburg.

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