15 giugno 2018

THE BIG BASEL

 
Approfondendo “Unlimited”, la sezione che rende speciale la fiera svizzera. E dove quest’anno le opere significative sono decisamente più del solito. Partendo dalla politica

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Le opere simbolo della quarantottesima edizione di Art Basel sono Non orientable Nkansa II (2017) dell’artista africano Ibrahim Mahama, composta da centinaia di scatole da lustrascarpe in materiali diversi da un serie di lavoratori migranti, e Old man Yu Gong is Still Moving Away Mountains, del cinese Yu Hong: una monumentale tela figurativa, dipinta con lo stile tipico da realismo socialista, che rappresenta una leggenda cinese legata alla capacità dell’uomo di sconfiggere la natura con la propria volontà. Due opere politiche ma realizzate in maniera opposta che sottolineano la complessità di una Art Unlimited davvero spettacolare, dove la percentuale di opere significative è più alta del solito. 
Quest’anno il curatore Gianni Jetzer ha selezionato progetti di alta qualità, all’insegna di una sorta di neo minimalismo punteggiato da alcune presenze pittoriche. Molte le opere notevoli e di grande impatto, visivo e concettuale: poetica l’installazione di Barbara Bloom The tip of the Iceberg (1991), che segna il ritorno di una eccellente protagonista degli anni Novanta con una delle sue opere più significative; inquietante Partition (2002/2018) di Matthew Barney, un’efficace reinterpretazione di Crewmaster 3, girato all’interno del Chrysler Building a New York. 
Sul versante della sospensione quasi metafisica spiccano The Narrow Gate (2017) di Jim Hodges, Antoine’s Organ (2016) di Rashid Johnson, dove un ragazzo nero suona il piano all’interno di una sorta di serra vegetale che rimanda alle sculture di Sol Lewitt rivisitate in chiave politica, ma soprattutto Christmas trees for the years to come (1996) della rumena Ana Lupas, una delle scoperte più interessanti di Unlimited 2018. 
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A.Lupas, Christmas trees for the years to come, 1993, wood, gold leaf, wires, hemp, papier mache, aluminum foil, 122 x 2076 x 98 cm, Photo Credit Andrea Rossetti Courtesy the artist and P420, Bologna
Un altro linguaggio molto protagonista è il video nelle sue diverse declinazioni che vanno dal racconto politico all’animazione, quasi sempre con risultati eccellenti, a partire dal surreale ludico Dream journal (2017) di Jon Rafman, una collezione di immagini 3D dal ritmo incalzante e dinamico. Sul versante del minimalismo politico troviamo Untitled 2015 (2015) di Rirkrit Tiravanija, ispirato alle rivolte contro i militari a Bangkok nel 2010, insieme a TLDR (2017) di Candice Breitz, un’analisi spietata dell’impatto della prostituzione sulla società sudafricana. Se il video musicale Breakaway (1966) dell’artista americano Bruce Conner appare  incredibilmente pionieristico, Camille Henrot fa centro ancora una volta con Saturday (2017), che rivela tutti i paradossi dei riti battesimali della chiesa avventista del Settimo Giorno, mentre Mark Leckey ci conduce in un appassionante viaggio nel mondo delle percussioni con Pearl vision (2016) e Richard Mosse con Incoming (2016) racconta le migrazioni con un linguaggio essenziale ma puntuale e sensibile. Dominate dall’essenzialità le opere storiche di Fred Sandbak Untitled (1982/2011), Ttéia 1, B (2000/2018) di Lygia Pape e Relatum (Iron field) (1969/19914/2018) di Lee Ufan che dimostrano come la grande arte non abbia bisogno di grandi mezzi espressivi. Infine, un applauso va alla nostra Lara Favaretto: le sue sculture di coriandoli colorati offrono un tocco di leggerezza tutta italiana ad una kermesse che ha dimostrato ancora una volta la forza della fiera più prestigiosa del mondo.
Ludovico Pratesi

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