16 luglio 2018

Un indiano a Milano

 
Viaggio nell’universo di risonanze di Karthik Pandian, il giovane “Tamil Man” di Los Angeles che fa danzare cammelli e usa l’architettura come “evento”

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Ouarzazate, Marocco. 2012. Alle porte del deserto, dove sono stati girati numerosi film – il primo Morocco nel 1930, Lawrence D’Arabia, di recente Babel di Iñárritu e Only Lovers Left Alive di Jarmush, cinque cammelli sonnecchianti e agghindati con drappi preziosi si guardano attorno, placidamente, senza confusione, come suggerisce l’etimologia berbera di Ourzazate. I cammelli, ripresi da una videocamera fissa, attraversano e performano i set Hollywoodiani sgualciti degli Atlas Film Studios, l’antico Egitto, La Mecca, Gerusalemme, paesaggi di architetture non finite ed edifici sospesi e abbandonati ai ponteggi, alla sabbia del Sahara, al tempo senza tempo. 
Esterno di Villa Invernizzi, Milano. 2018. Il giovane artista Karthik Pandian (L.A., 1981) intraprende una sorta di “meditazione camminata”: in piedi, le mani nel Mudra della preghiera, in una posizione di equilibrio, attivando ginocchia e archi plantari, raggiunge lentamente il punto dal quale si possono scorgere i maestosi fenicotteri rosa. Li saluta, inchinandosi con reverenza, e si lascia inghiottire dalla cosiddetta Savasana, la posizione del cadavere. Steso a terra con gli occhi chiusi e incorniciati dal kajal, nel suo travestimento rosa tinto a mano costellato da anelli metallici, è al centro del turbinio di traffico e spettatori, distante con la mente ma vigile nel corpo. Nel frattempo si inaugura la sua seconda personale “Tamil Man” nella galleria Federica Schiavo. 
Barbie, Kartouk, Kunda, Samaka e Tata sono i cammelli dell’opera video di Karthik Pandian Atlas/Inserts (2014), realizzata in collaborazione con Il danzatore e artista visivo Andros Zins-Browne, incontrato durante gli studi di semiotica e letteratura comparata alla Brown University. L’atlante di Pandian e Zins-Browne è un progetto orchestrato in tre atti che si dipana tra passato-presente-futuro. Atlas/Inserts è una vera e propria coreografia che aspira a ridare forma ad alcuni estratti di Channels/Inserts (1982) di Charles Atlas e Merce Cunningham. I cammelli “danzano”, ispirati dal fervore della primavera araba, come animali politici, e come “tecnologie del movimento” trottano a ritmo dei suoni in presa diretta e della stridula composizione elettronica di David Tudor, Phonemes, che fa da traccia sonora.
 Atlas Revisited (2016) è l’evoluzione dell’atto I, la ri-creazione virtuale e multimediale di un film politico, un nuovo ibrido dalle infinite potenzialità sincretiche. Mescolando testo, cammelli occidentali presi a noleggio, props di scena, lo staff che fa da comparsa, immagini in movimento realizzate nel centro sperimentale EMPAC di Troy (NY) e proiettate su un fondale verde, gli artisti si confrontano sulle problematiche di una re-enactment – della ricostruzione della danza sulla libertà di Atlas/Inserts e sulle sue implicazioni filosofico-morali. Si è trattato di uno stratagemma costrittivo ai limiti dell’impossibile? Di una forma di coercizione documentaristica priva di autenticità o piuttosto di una finzione agita e manifesta? Proprio sull’equilibrio, spesso ambivalente e misterioso tra vero e falso, realtà e fiction, gioco e manipolazione, sta la chiave di accesso per l’interpretazione delle due tipologie di azioni performative, la registrazione Live in Atlas Inserts/Revisited e la sua reiterazione, e il movimento circoscritto, ripetitivo e rituale di “Tamil Man”.

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Karthik Pandian Tamil Man, 2018 Installation View, Federica Schiavo Gallery Milano, Ph. Andrea Rossetti

In Atlas Unlimited (2019, Chicago e Bruxelles), progetto in fieri reso possibile grazie al finanziamento della Graham Foundation di Chicago, Karthik Pandian e Andros Zins- Browne indagano il concetto di “architettura come evento”, un’architettura osservata dalla prospettiva della sua durata che contiene intrinsecamente l’idea di lavorio e performance. Tale approccio è il fulcro tematico della ricerca di Karthik Pandian: mettere a fuoco il gioco del tempo, lo sforzo, il significato delle cose che si materializza sulla soglia, in un intervallo, “nello stroboscopico movimento avanti e indietro tra passato e presente, tra ciò che è sepolto e ciò che vive”. Ed è nel gioco libero e immaginativo tra l’atto del ricordo e l’oblio e nella relazione con la storia e la coscienza storica che Pandian elabora delle sofisticate, prolifere e stratificate narrazioni meta-finzionali, guardando alle etno-finzioni dell’antropologo e filmmaker Jean Rouch. 
C’è un’altra “figura” rilevante che accomuna il colossale Atlas/Inserts/Revisited/Unlimited e il percorso meditativo che introduce e, nel contempo, chiosa la mostra, ed è Bruce Nauman e il suo stesso debito nei confronti della danza sperimentale degli anni Sessanta e della Scultura Minimalista. Nella serie delle performance filmate “Studio Films” (1967-68) di Nauman, come per esempio Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square, l’artista, vestito in modo casual, solo in uno studio spoglio, esegue una serie di semplici azioni dalla gestualità ordinaria e dall’estetica antiespressiva. Quello che appare del tutto innovativo e contemporaneo, superando la feticizzazione del corpo in scena, è l’introduzione nella performance di tutto l’apparato coreografico (partiture, azioni, documentazione) eseguito dal vivo durante l’evento stesso: “il linguaggio del movimento”. Per Karthik Pandian si può parlare di “tecnica della fiction”, o “tempo della produzione”, il re-make, re-editing che unisce sceneggiatura, attori, trucco, accessori di scena, assemblaggio del set, con la rilettura di un tema/progetto a carattere storico-politico-antropologico. Nel caso specifico della performance Tamil Man è “linguaggio come azione”. Si sposta l’attenzione sul contesto materiale, l’azione umana e la soggettività. 
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Karthik Pandian Tamil Man, 2018 Installation View, Federica Schiavo Gallery Milano, Ph. Andrea Rossetti

È un modo di parlare attivo in cui in principio è il camminare; mettersi in moto lentamente, anche in maniera esagerata, intraprendere un viaggio che destabilizzi il soggetto, nella direzione di un atto di re-framing, re-reading, al fine di costruire discorsi e repertori artistico-culturali nuovi, espandere all’infinito i significati ed invertire valori già decodificati. 
Si prenda, ad esempio, lo statement, scritto in occasione della sua personale dallo stesso Pandian, la cui identità è scivolosa, spaziando tra l’artista visuale che lavora con la scultura e le immagini in movimento, l’antropologo visuale in 16mm, l’archeologo “del buio” – come si definisce – e il docente universitario ad Harvard in Visual e Environmental Studies. Tale dichiarazione cristallizza il “linguaggio come azione” in quanto “istruzione per l’uso” operativa e dinamica e fortemente allusiva. “Quando cammino lentamente attraversando lo spazio del mio studio, passeggio con i miei antenati. Cammino con emarginati, migranti e rifugiati. Cammino con artisti, ballerini e pellegrini. Il mio piede trema, non abituato a questa fatica. È dipinto, concepito come fosse una scultura. Personifico Tamil Man”. 
Karthik Pandian è cresciuto in una comunità indiana Tamil a Los Angeles ed è sempre stato affascinato dal rapporto tra il molto vicino e il molto lontano perché nel mezzo costruisce la sua ricerca, il suo ibridismo tra turista e pellegrino, tra devoto e curioso in relazione alla “terra dei Tamil”, alla lingua dravidica d’origine. Le polarità nutrono il suo lavoro, nella misura in cui le terre di mezzo rimescolano le carte in tavola. Materiale e immateriale, interno ed esterno, complicità e oggettività, reale e irrazionale, quando il reale è il risultato di un’oscillazione dialettica tra storico e contingente e il personale è una categoria molto dubbia che predilige l’assenza, la mancanza del senso, dello spazio, del tempo. Per Tamil Man, partendo dall’assunto che il popolo Tamil sia l’unica cultura classica vivente (aspetto considerevole per l’artista), decide di incarnare una living history, personificando un uomo Tamil fittizio. Si trucca e assume le pose a immagine di una scultura viva, si fa avatar in 3D. Svela la maschera, la “persona”, l’artificio di una distorta ricostruzione pseudo-antropologica ad opera di Malvina Hoffman attraverso una vivida fusione mediale: i banner (Opulent Austerities), l’installazione scultorea (Platform for economic and literal levitation, il video (Tamil Man), le gouache (Boat-Corpse- Reclining Buddha Pose), i tessuti (Constellation e Flesh). Un uomo Tamil del sud-est dell’India, vestito di pelli e con un falcetto come strumento, si arrampica su una palma per estrarne la linfa e preparare il vino. Partendo da questa rappresentazione falsificata, obsoleta, approssimativa, Karthik Pandian, con ironia beffarda, manipola e altera il discorso dominante, attua un displacement in tre direzioni, sia nel senso di un trasferimento di idee dal tempo passato al tempo presente, che sradicamento – di popoli, culture – e infine rimozione psicoanalitica. “Tremando, muoio e partorisco me stesso, ogni 29,97 millesimi di secondo”. 
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Karthik Pandian Tamil Man, 2018 Installation View, Federica Schiavo Gallery Milano, Ph. Andrea Rossetti

La storia del rapporto tra Karthik Pandian e l’idea di sradicamento, oltre a diramarsi dalle sue origini, è incastonata in altre sue mostre, ed è una storia di collisioni narrative: nella collettiva “Trieste”, in cui presentò Broken Claw (Mare Nostrum), nella sua prima personale in Francia, “Confessions” del 2014, in “Snails and Oysters” e nei progetti “Atlas”. 
Karthik Pandian conserva un approccio liminale quando si tratta di dipanare tutti i piccoli dettagli incastonati nel flusso del tempo. Restare in osservazione sul confine dove storico e contemporaneo si perseguitano a vicenda, gli permette di incontrare l’inatteso. Come accade al Metropolitan Museum di New York dove si imbatte nei granchi di bronzo che sorreggono “l’ago di Cleopatra”, e il cranio del filosofo Descartes al Musée de l’Homme a Parigi, e le terme di Caracalla a Roma e i souvenir e le foto della replica della “via del Cairo” per l’esposizione colombiana a Chicago nel 1893. 
Instaura una relazione intima con gli oggetti artigianali, la tecnologia o la merce, l’astrazione del pensiero e la concretezza del corpo, perché la propulsione è quella di reinserire l’antico nella sua posizione originale. Ricreare, ricucire lo smembrato e simultaneamente accoglierne l’incorporeità, rivendicando il frammento in quanto frammento e riattivando la tensione verso la storia. Il granchio come animale difensivo e memento di una lacerazione storica antica (tra Egitto e Roma) e contemporanea (la crisi economica in area mediterranea). La reliquia del teschio, simbolo della res cogitans cartesiana, allude ad un furto e ad una restituzione, ma ci riporta al modello 3D in noce del cervello dell’artista che incorpora storie di inconscio e confessioni morali e immorali. Permettere alla parzialità di esistere, permettersi di vedere il mondo per frame, singolarmente e in successione, nell’infinito continuum del potenziale percettivo. Nell’esperienza dell’incontro, la percezione contiene un’antinomica tensione: da un lato impone un limite, dall’altro si estende, attraverso la proiezione, in nuovi tempi e spazi. Su questa contraddizione Karthik Pandian agisce, in questo in between complesso, magmatico, dove le cose accadono per prossimità, risonanza e accordo. 

Petra Chiodi

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