28 aprile 2012

Un Pinault da Medioevo

 
Un altro spazio targato PPR, l’holding del lusso: il Gucci Museum di Firenze. La cornice è medioevale: Piazza della Signoria. Il contenitore, una sede rigorosa: Palazzo della Mercanzia. L’offerta varia tra l’archivio storico della Maison e le opere della François Pinault Collection. Ma le scelte non sono sempre felici, come emerge dalla mostra attualmente in corso [di Fiammetta Strigoli]

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L’ultimo, in ordine di tempo, museo d’impresa a Firenze è quello aperto da Gucci in Piazza della Signoria. Con sede nello storico Palazzo della Mercanzia è stato inaugurato nel settembre 2011 in occasione del 90° anniversario del marchio fondato a Firenze nel 1921 dal sapiente artigiano Guccio Gucci.
Lo splendido e prestigioso palazzo, costruito intorno al 1359 sui resti del teatro romano ed oggi monumento nazionale, è stato riadattato come la maggior parte dei musei di oggi, dove trovano collocazione diversi servizi: un’esposizione permanente dell’archivio storico del marchio Gucci, uno spazio espositivo per mostre temporanee, una sala per proiezioni di video e film, un caffé, un bistrot, un gift shop, un bookstore, una biblioteca gratuitamente accessibile con tanto di rete Internet.
Offerta che si confà alla realtà attuale di Gucci, brand internazionale del gruppo PPR, l’holding del lusso di cui è presidente e amministratore delegato l’imprenditore francese François-Henry Pinault, figlio di François Pinault che dal 2003, abbandonate le redini del gruppo, si è dedicato alla sua grande passione: l’arte contemporanea.
Con la nascita del Gucci Museo a Firenze, la Collezione François Pinault ha in Italia un ulteriore spazio di visibilità. Quindi il Museo, pur nascendo come spazio aperto alla città, come dichiarato da Frida Giannini, direttore creativo della Maison che l’ha voluto e ideato e che ne segue la programmazione espositiva, non prevede al momento collaborazioni e sinergie con enti e figure del territorio, se non la destinazione del 50 per cento delle entrate dei biglietti d’ingresso al Comune per il restauro di opere d’arte della città.

Due gli eventi espostivi proposti fino ad oggi, entrambi a cura di Francesca Amfitheatrof. Fino al 4 settembre è di scena Lo spirito vola del britannico Paul Fryer. Pietà, Ecce Homo e Ophelia s’intitolano rispettivamente le tre installazioni che rappresentano una riflessione su religione e moralità.
Al centro della sala, s’impone l’opera Pietà: il Cristo, realizzato in collaborazione con le maestranze del Museo delle cere di Madame Tussauds, raffigura un corpo martoriato, dalle proporzione ridotte rispetto all’evocazione di sedia elettrica sulla quale è seduto. Realismo della figura umana constatabile anche in Ophelia, il personaggio shakespeariano è rivisitato dall’artista rispetto all’iconografia che la vuole trasportata dalla corrente del fiume, contornata dai fiori che le scivolano attorno. Più semplicemente, è una ragazza con gli occhi sbarrati che galleggia nel silicone traslucido in una teca di vetro con le braccia distese a forma di croce. Ecce Homo è una piccola installazione sotto teca in cui un uovo nero è sospeso sopra un nido di spine. 
Nonostante l’età, la maturazione del Paul Freyer (1963) artista visivo non è ancora risolta, concettualmente appare flebile il filo conduttore che lega fra loro le opere se non simbologie in “superficie” che attingono dalla mistica e dalla cultura. La sua è una figura di creativo attento e lo dimostra il suo curriculum da cui emergono molteplici impegni professionali tra cui la creazione del The Kit Cat Club e del Vague, Art-based Club di Leeds, oppure il ruolo di Direttore Musicale presso la Maison Fendi che ha recentemente lasciato. Nel frattempo annovera amicizie e frequentazioni di artisti importanti, tant’è che ha composto una raccolta di poesie, Don’t Be So…, illustrata da Damien Hirst. 

Prima di Freyer, scegliendo un registro espositivo completamente diverso, il Museo Gucci aveva inaugurato nel settembre 2011 con Bill Viola. Amore e Morte era un progetto costituito da due video-installazioni: Fire Woman (2005) e Tristan’s Ascension (The Sound of a Mountain Under a Waterfall) (2005), che traeva ispirazione dall’opera Tristan und Isolde di Richard Wagner, incentrando quindi il tema dell’impossibilità di amarsi alla luce del sole di due innamorati costretti alla promiscuità e a continue menzogne. Condannati all’infelicità, l’unica via possibile che li unisca per sempre è la morte. Un modo di “liberarsi” che l’artista ha raccontato con immagini catartiche, facendo ricorso a elementi della natura come il fuoco e l’acqua.
Bill Viola fin dai primi anni Settanta opera con l’immagine in movimento e tutta la sua opera tende a sollecitare nel fruitore una sensazione dell’esser-ci che va oltre l’esperienza comune. In altre parole, la sua arte indaga i territori della mente (memoria, realtà, fantasia) provocando “l’impervio terreno psicologico” che è in ognuno di noi, dove la percezione dell’esistenza è divisa tra consuetudini e deroghe, tra ordine e caos, tra vita e morte. «Nel mio lavoro sono sempre stato interessato a riflettere sulla realtà, sul tempo contro l’eternità, la grande sinfonia degli opposti: giorno e notte, luce e oscurità, fuoco e acqua, maschio e femmina, un’incredibile danza cosmica di cui facciamo parte».
La sua poetica, dagli esordi, non è cambiata, semmai si è evoluta, andando sempre alla ricerca di nessi culturali capaci di aprire ulteriori conoscenze sull’esperienza umana, senza curarsi di generi o correnti artistiche. Artista perfezionista sul piano tecnico, ha sempre ritenuto il mezzo, cinepresa o videocamera, uno strumento e come tale non autoreferenziale rispetto al significato dell’opera. 

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