04 maggio 2017

Una casa a Tirana

 
Anche in Albania c'è la Biennale. Dura sei giorni, e il direttore è un giovane artista: Driant Zeneli. Lo abbiamo intervistato per conoscere questa “home” che guarda all'Europa

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Apre oggi “Mediterranea 18 Young Artists Biennale”, promossa dal network internazionale BJCEM e riservata ai giovani artisti e creativi under 35, provenienti dai Paesi dell’area Mediterranea. 
Direttore artistico di questa edizione, che si svolgerà durante sei giornate dense di eventi in Albania, tra Tirana e Durazzo, è Driant Zeneli, classe 1983, artista albanese formatosi a lungo in Italia e recentemente vincitore del Moroso Concept 2017. Insieme a un team curatoriale (composto da Jonida Turani, Maja Ćirić, Eroll Bilibani, Ema Andrea, ALA Group/Maria Rosa Sossai, Tulla Center-Alban Nimani-Rubin Beqo), Zeneli ha delineato il concept della biennale intorno all’idea di “HOME/CASA”, intrecciandolo ad altri quattro elementi di lettura chiave del contemporaneo: Storia, Conflitto, Sogno, Fallimento. Ecco cosa ci ha raccontato di questa iniziativa tanto veloce quanto necessaria per tracciare un nuovo profilo, non solo dell’arte e della sua condivisione, ma anche e soprattutto di un Paese. E di una “casa” chiamata Europa che non sembra più così solida.
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Hai scelto come location oltre trenta spazi, disseminati principalmente nel centro di Tirana, con storie e destinazioni d’uso molto diverse tra loro. Come sta rispondendo la città a tutto questo?
«La maggior parte delle location sono spazi mai utilizzati prima per l’arte contemporanea, a volte abbandonati e chiusi da tempo, o ancora in cantiere, attivati o riattivati appositamente per la biennale: penso ad esempio al mercato Pazari i Ri, al Circo di Tirana, all’ex Ambasciata di Jugoslavia, o al nuovo teatro in costruzione Turbina. La città di per sé è coinvolta, ricettiva; abbiamo avuto la collaborazione di tanti giovani volontari, ricevuto molte proposte per progetti sia interni che paralleli alla biennale, e tante proposte sono venute da realtà estere, anche istituzionali come ad esempio l’Istituto di Cultura Italiano a Tirana, o la Regione Puglia».
Come e quanto è cambiata secondo te Tirana negli ultimi anni, dopo il decennio nel quale Edi Rama è stato sindaco della città (2000-2011)?
«Il grande merito di Edi Rama è stato quello di inserire Tirana all’interno della mappa internazionale dell’arte contemporanea, insieme all’energia di tante altre personalità dell’arte e della cultura. Il problema è che in questo Paese scarseggiano, dal punto di vista istituzionale ed economico, politiche per sostenere i giovani artisti. Inoltre, tutto è ancora fortemente legato alle istituzioni. Penso sarebbe necessaria anche la nascita di fondazioni o collezioni private più indipendenti. A Tirana c’è economia, ma le imprese non hanno ancora la mentalità per investire nell’arte contemporanea».
Come sei stato selezionato per diventare Direttore Artistico di Mediterranea 18?
Mi trovavo a Tirana nel luglio-agosto 2016, per un progetto con Fondazione Pistoletto. In quell’occasione la ministra della Cultura dell’Albania, Mirela Kumbaro, mi ha proposto questo incarico: lei è stata la maggior promotrice di questa iniziativa in Albania, insieme al Comune di Tirana. La BJCEM non decide direttamente il direttore artistico di ogni edizione: i Paesi si candidano per essere luogo ospitante di ogni edizione, e al vincitore poi vengono date delle linee guida precise, come ad esempio nominare un direttore artistico del Paese ospitante, o definire i campi di ricerca da includere nella biennale».
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Ti avrei chiesto infatti da dove è venuta la necessità di suddividere la biennale in queste diverse aree (arti applicate, arti visive, performance, letteratura creativa, musica, film)
«Non le ho create io, perché non credo in un’arte divisa in settori; la BJCEM ha un format ben preciso che esiste da oltre trent’anni: intende presentare e valorizzare la produzione di giovani creativi provenienti del Mediterraneo cercando di riunire molte forme espressive, dalle arti visive alla gastronomia. Ho scelto i campi che più mi interessavano, cercando per quanto possibile di declinarli in maniera più pertinente al concept curatoriale di questa edizione pensando più che alle “arti applicate” al concetto di architettura, a “letteratura creativa/performativa” più che alla sola letteratura. Anche la selezione degli artisti è stata fatta in parte da me e dal team curatoriale, in parte dai partner fissi che la BJCEM ha in ogni Paese coinvolto: il risultato è stato abbastanza eterogeneo, fatto anche di belle scoperte, ma è stata importante anche la scelta di un gruppo di curatori e professionisti con i quali costruire un’idea di fondo, un concept che desse direzione a tutta la biennale, integrando il programma principale anche con progetti paralleli e special guest».
Ti sei comportato come un vero e proprio direttore d’orchestra…
«Totalmente! “Mediterranea 18” è, a livello di numeri, uno degli eventi più grandi legati all’arte contemporanea mai realizzato in Albania, con circa 300 artisti, 140 volontari, uno staff di oltre 20 persone. Una bella sfida per tutti».
Come artista, che esperienza è stata fino ad ora quella di direttore artistico di una biennale?
«Ho accettato questo incarico con un po’ di timore, per me tanti aspetti rappresentavano un’assoluta novità: è un’esperienza che mi ha assorbito completamente, non sono riuscito a concentrarmi molto sulla mia ricerca. Una volta Paolo Naldini della Fondazione Pistoletto mi ha detto “Driant, ma tu stai realizzando, con questa biennale, un’opera!”. E credo sia vero, a cominciare dalle quattro parole che formano il concept della biennale, “HOME: Storia, Conflitto, Sogno, Fallimento”, sono tutti elementi fondanti che convivono nella mia ricerca artistica».
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Anche la durata di questa biennale mi sembra rispecchi molto il tuo modus operandi: la lunga preparazione, l’attesa, l’azione che poi si condensa in un attimo. Non è stata organizzata una vip preview, ma una pre-biennale – in collaborazione con la Regione Puglia – che è viaggio in nave, da Bari a Durazzo, spazio di dialogo e riflessione con 120 degli artisti coinvolti nella biennale, più altri ospiti, e il pubblico. Come mai questa scelta?
«È vero, questa biennale è stata per me una lunga preparazione per arrivare poi a un’esplosione unica, un grande evento condensato in sei giorni. Poi, alcuni degli spazi che ospitano la sezione di Arti Visive resteranno aperti fino al 28 maggio. Nel testo di presentazione scrivo proprio che dobbiamo ricostruire la nostra casa attraverso gli sbagli e l’attesa. Partendo dagli errori commessi, e lavorando sull’attesa, abituandoci ad aspettare, ad avere pazienza, si arriva al momento di condensazione e poi di realizzazione. Vedo i sei giorni di questa biennale un po’ come un vulcano che, esplodendo, possa seminare intorno a sé, ad ampio raggio, nuove possibilità».
A proposito di “HOME/CASA”, mi ha molto colpito una frase di Ema Andrea, curatrice della sezione dedicata alla Performance: “L’Europa oggi è uno spazio di corpi in arrivo e in partenza, che si intersecano l’un l’altro unendosi in nuovi modi di vivere insieme. L’ Europa è la casa che perde forma”. L’idea è quindi quella di una casa che va sempre più smaterializzandosi: pensi sia ancora possibile, allora, parlare di casa intesa come “Heimat”, patria, luogo dove si è nati e cresciuti, terra degli affetti, difficile da abbandonare?
«”Mediterranea 18” non vuole riflettere su cosa sia la casa, ma piuttosto su quanti elementi possiede, anche tangibili, su quanto tempo ci vorrebbe per distruggere e far scomparire tutto quello che c’è, ciò che noi pensiamo sia permanente e invece si rivela temporaneo. Non cerca quindi di avere un approccio malinconico, ha un punto di vista più freddo: non si tratta tanto di un home sweet home quanto di “HOME”. Ognuno di noi intende casa in maniera diversa: può essere una valigia, un cellulare, o la casa della nonna, la casa di campagna dove si è cresciuti. Con gli anni la percezione è cambiata, e si diventa sempre più nostalgici di quello che non si ha avuto. Se chiedi a un ventenne di descrivere il concetto di casa, avrà una concezione totalmente diversa rispetto a quella di un settantenne. Heimat credo sia un’idea più collegata a persone che hanno vissuto un periodo storico diverso, passato: la nostra società è più effimera, più temporanea, più connessa e allo stesso tempo mal connessa, più caotica. Le tecnologie hanno cambiato totalmente questa percezione».
Valentina Fiore

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