18 febbraio 2013

Uno, dieci, cento Richter!

 
«Mi piace tutto ciò che non ha stile: dizionari, fotografie, natura, io e miei quadri. (Perché lo stile è violento, e io non sono violento)». Nel "non stile" che nega l'unicità auratica, rientrano le edizioni. Pratica irrinunciabile per sperimentare. Tornare su se stesso. In una parola: inventare. Ora questo affascinante percorso di Richter è presentato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Non una mostra di serie b, ma una rassegna imperdibile

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È un senso di completezza a pervadere chi visita la mostra di Gerhard Richter (Dresda, 1932) alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino: “Edizioni 1965-2012 dalla Collezione Olbricht”. Se un artista di fama internazionale dovesse diventare per un giorno il designer di se stesso e, presentandosi ad un pubblico di addetti e non, circoscrivere in una sola mostra, i saggi più rappresentativi della propria opera omnia, questa potrebbe essere la via percorribile per un esito efficace, compiuto e per nulla scontato.

Più di 150 opere per una notevole varietà di media e di supporti che tra fotografie, serigrafie, litografie offset, dipinti su tela, su carta e alluminio sottolineano fortemente una volontà di sperimentazione continua che, senza (s)cadere nell’eclettismo di genere, propone il percorso coerente e coeso di un grande maestro del contemporaneo europeo. Coprotagonista indiscusso e compartecipe dell’ottima riuscita della mostra, il collezionista Thomas Olbricht che, per oltre un ventennio, ha scortato l’opera di Richter accumulando un corpus di circa 200 edizioni dell’artista, tra il 1965 e il 2012.

Dalla prima stampa del ’65 appare esplicito sin da subito, in Richter, l’interesse nei confronti dei procedimenti di riproduzione fotomeccanica retaggio, forse, di una formazione da cartellonista nella Dresda degli anni Cinquanta. Ma sarà la visita del ’59 di Documenta II a Kassel, a segnare la svolta del suo percorso formativo: i lavori di Pollock e Fontana segnano per Richter un punto di non ritorno. «La sfacciataggine pura! – afferma in un’intervista a Benjamin HD Buchloh nel 1986 – Questo mi ha davvero affascinato e mi ha colpito. Potrei quasi dire che quei quadri erano il vero motivo per cui ho lasciato la DDR. Mi resi conto che c’era qualcosa di sbagliato con il mio modo di pensare».

Il 1964 è l’anno della prima personale alla Galerie Friedrich & Dahlem di Monaco si Baviera, il 1970 quello del viaggio a New York con Blinky Palermo a mostrare il loro lavoro a Rosenquist e Robert Ryman. Dal 1983 risiede definitivamente a Colonia. Nel 1997 è consacrato dal Leone d’Oro alla Biennale di Venezia.

«Consideravo, e tuttora considero, le edizioni come una gradita alternativa alla realizzazione di dipinti, che sono pezzi unici. Le edizioni rappresentano una fantastica opportunità per presentare la mia opera a un pubblico più ampio», dichiara Richter, nel 1998, in una lettera indirizzata al MoMA di New York. Un intento “democratico”, dunque, quello dell’artista tedesco, volto ad accrescere la dignità della stampa, collocandola tra fotografia e pittura. Negando la soggettività del gesto, la scelta della stampa a getto d’inchiostro piega la grafica industriale al servizio dell’arte, producendo esiti visivi autonomi, puntando ad un’espressione artistica che stia al passo coi tempi.

Ma non solo: alla base delle “edizioni” di Richter vi è una riflessione ad ampio spettro sul concetto di “immagine” all’interno del contesto mediatico contemporaneo. Il giro di boa imposto nel 1936 dal saggio di Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui la concezione tradizionale di “autenticità” dell’opera stessa viene invalidata dall’avvento della fotografia e della cultura di massa, getta le basi per una serie di sperimentazioni in ambito artistico cui si può ricondurre, in qualche modo, anche la ricerca di Richter.

Se, da un lato, i pezzi in edizione danno risalto ai punti di messa a fuoco essenziali del suo lavoro pittorico, dall’altro, lavorando su immagini già esistenti, riflettono sulle possibilità stesse della figurazione. Quella che l’artista definisce come “anti-grafica”, ovvero la scelta consapevole di utilizzare sempre e solo tecniche di riproduzione fotomeccaniche, abbandonando i sentieri più tradizionali della litografia e dell’incisione, incarna l’esplicita intenzione di superare l’opposizione fra intervento manuale dell’artista sull’opera e procedimento industriale e quindi, in senso lato, la secolare dicotomia tra arti maggiori e arti minori.

In una nota del 1964 l’artista afferma – «La fotografia è l’immagine più perfetta. Non cambia, ma è assoluta, e quindi autonoma, incondizionata, priva di stile. Sia nel suo modo di informare, che in ciò che informa, è la mia fonte». L’immagine rappresenta dunque un principio formale costante che, declinato in diverse modalità fa di ogni copia un pezzo unico, un’edizione appunto. Il multiplo, l’ordine seriale, inneggiano così ad un’arte che sia, al contempo, anti-gerarchica e anti-autoritaria, testimone del processo di democratizzazione che ha (s)travolto l’arte nella seconda metà del secolo scorso: ecco che la tiratura non toglie nulla al fascino di ogni singolo pezzo.

Betty (1991), edizione di 25 copie, è una stampa offset da un dipinto, olio su tela, a sua volta ricavato da un ritratto fotografico della figlia dell’artista: il prodotto, cioè, di quattro passaggi mediali. Fuji (1996), edizione di 110 copie, è, invece, un dipinto a tutti gli effetti la cui costruzione dell’immagine è lasciata puramente al caso: tre strisce orizzontali monocrome una rossa, una verde ed una gialla, vengono spatolate con del colore ad olio bianco producendo, ogni volta, una campitura cromatica astratta differente. Kerze II (1989), edizione in 50 copie, è nuovamente una stampa realizzata a partire da una foto di un dipinto ad olio, sulla quale viene nuovamente applicata, con un setaccio, pittura ad olio nera.

«Come artista – afferma Hubertus Butin, curatore della mostra – possiede una profonda consapevolezza della dimensione storica inerente alla produzione artistica e si interroga, ripetutamente e in modo critico, sulle possibilità dell’arte contemporanea. Tutto questo sullo sfondo delle tradizioni storico-artistiche e dei mutamenti semantico-culturali subiti dalle immagini, dai media e dai contesti visivi». La questione centrale dell’immagine diviene, dunque, per Richter quesito esistenziale, per il visitatore il fil rouge di un percorso narrativo.

Se nel suo significato letterale il termine edizione si traduce come “l’insieme degli esemplari e ogni singola copia di una tiratura”, in senso figurato può altresì indicare “il modo di presentarsi, l’aspetto di una persona”. Che non sia, dunque, questa mostra l’auto-scatto ironico e metaforico di una fulgente personalità artistica? Comunque un’occasione “da non mancare”.

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