29 luglio 2019

Assistere alle performance di Live Works è stato come partecipare a un rito pagano

 

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Quando una performance è ben riuscita somiglia molto a un rituale. A Centrale Fies un certo tipo di rito pagano va sotto il nome di Live Works, un progetto di ricerca e di confronto intorno al concetto di performance, unico in Italia per il suo genere, quest’anno alla settima edizione. 
Dal 2013 Fies si afferma a livello europeo come centro artistico che, specialmente con Live Works, viene a colmare un vuoto dato dalla frammentarietà con cui si tende a trattare l’arte performativa, scindendola tra teatro e arti visive. Nei suggestivi locali dismessi della centrale elettrica le simmetrie abbandonate dalla tecnica ridanno ai corpi il loro valore e scandiscono il ritmo con cui si compie l’arte di sintetizzare nel performativo una complessità che si dirama in ogni spazio del rapporto del corpo col mondo, in un ambito che è molto più che reale: è ipernaturale. 
Con la formula IPERNATURAL, la 39ma edizione del festival di arti performative DRODESERA, di cui Live Works è una parentesi lunga tre giorni, continua un discorso iniziato nelle edizioni precedenti (Supercontinent e Supercontinent 2) e apre lo sguardo sulla ricchezza della diversità, sulla mutevolezza dell’essere in ogni sua forma artistica reale o possibile, e sulla felicità dell’incontro. “Biodiversity strives for high visibility” non è solo il motto che accompagna l’edizione, ma diventa il modo per Centrale Fies di definirsi non definendosi mai e il criterio di selezione degli artisti e i lavori protagonisti di Live Works: nato come premio e più circoscritto, oggi il progetto prende la forma di un programma di residenza e di ricerca individuale e collettiva, laboratorio ibrido per gli artisti selezionati attraverso un bando di portata e prestigio divenuti internazionali. 
Già nelle mani di Simone Frangi, curatore di Live Works dal 2013, e di Barbara Boninsegna, curatrice e co-fondatrice del festival, Live Works vol. 7 si arricchisce del contributo di Daniel Blanga Gubbay, professore all’Académie Royale des Beaux Arts di Bruxelles e co-direttore del KunstfestivaldesArts. Insieme, curatori e artisti in residenza, convivono la riflessione aprendosi al dialogo e alla sperimentazione di pratiche emergenti che siano un aggiornamento costante e inclusivo degli spiriti attuali. 
Un focus group dalla forma geologica, un cerchio che si stringe intorno ad ognuno dei 9 artisti selezionati e si sublima ora con Dina Mimi (PA) nella storia del movimento e di un “Dio [che] è un cerchio il cui centro è ovunque ma la cui circonferenza non è in nessun luogo”, ora in quell’abisso che separa l’io dall’altro da sé, l’indefinibile “questo” da “quello”, secondo la gabbia danzata e descritta da Ndayè Kouagou (FR). Su questo gioco di circonferenze si muove incerto il bacino dell’artista turca Ceylan Öztrük (CH/TR) dietro a quello di una maestra di danza del ventre che invece di orientale riflette solo l’idea stereotipata dietro a cui si ha soggiogato l’intero universo femminile mediorientale e non solo. 
Io e l’altro, l’osservato giudicato dall’osservatore, l’eterna ferita che minaccia di riarginarsi con la rabbia di un animale: Nina Biluš Abaffy (AU/HR) e Parvin Saljoughi (IR) sciolgono il limite tra performer e spettatore e avvertono, “gli animali divoreranno i loro padroni”. Eppure senza divorare nessuno si possono aprire tutti i sensi più uno per ritrovarsi insieme nell’immaginazione: con Rehema Chachage (TZ), tra canti, incensi e chiodi di garofano, per venti minuti le rocce trentine son diventate terra africana. 
Live Works è un biotopo dove performance art, arti visive, infiorescenze sonore, teatro si intrecciano secondo un’ecologia artistica della contaminazione, anche per quanto riguarda i temi che muovono all’atto performativo. Tra allestimenti complessi crescono l’amore di Cristina Kristal Rizzo (IT) e Charlie Laban Trier (DK/NL) – buio, sonoro, intimo fino al ricordo – e quello di Astrit Ismaili (KV/NL) e Magdalena Mitterhofer (IT/DE) – politico e carnale, rosa e pornografico, sempre in dubbio di ingenuità. Altri ancora esprimono solo col proprio corpo: Kat Válastur (GR/DE), coreografa, si serve dell’estasi di due ballerini per esplorare la gioia; Katerina Andreou (GR/FR) e Ioanna Paraskevopoulou affrontano col corpo lo spazio, lo riempiono fino a farsi anche rumore. 
Ma quanto è grande una performance? Ci sono forme d’arte che partono dagli occhi, altre dai timpani; una performance è grande quanto la propria intera presenza. Perché ci sia bisogna esser-ci. È così che la lecture di Juli Apponen lo diventa: forse la guest performer più di impatto di questa edizione, le bastano un tavolo e una sedia e raccontare il cronogramma del calvario di operazioni subite per ritrovare il proprio corpo. 
Tra gli altri guest performers tanta sonorità: Invernomuto porta dal mondo una giungla sperimentale, Sofia Jernberg è una valvola di tutti i suoni della terra, The Otolith Group registra un minimalismo che se fosse coreografia ammiccherebbe agli hula hoop di Hominal & Chaignaud. 
Tanti suoni, forse, riflessioni e teatralità sia per ricomporre l’ecosistema della performing art, sia perché Centrale Fies in quanto a impatto visivo gode già di una potenza inaudita. Centrale di nascita e “centrale” negli anni a venire, nel senso di punto nevralgico delle arti performative in Europa e nel mondo (da quest’anno Live Works avrà anche una dimensione editoriale da bruno, di Venezia, con una collana dedicata); Fies è un’incubatrice perenne di specie artistiche sempre nuove, che solitamente sbocciano a luglio. (Riccardo Franzetti
In alto: Live Works vol7, foto credits Roberta Segata per Centrale Fies

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