06 febbraio 2017

Biennale Arte 2017: le presentazioni ufficiali di “Viva Arte Viva” con la direttrice, Christine Macel

 

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La Biennale di Venezia? «Un luogo di dialogo, di confronto aperto tra artisti e pubblico: ecco la nostra ragion d’essere. Luogo di libero scambio. Guardiamo alle opere come se fossero sempre nel momento in cui nascono, prima della vivisezione della critica. Alla Biennale le opere vengono alla luce». Sono le prime parole di Paolo Baratta, Presidente dell’istituzione veneziana, in occasione della presentazione della 57esima edizione, a cura di Christine Macel e intitolata “Viva Arte Viva”. 
Una Biennale, e lo avevamo ben inteso in occasione delle primissime presentazioni, atta a celebrare il mondo dell’arte e degli artisti, “demiurghi” che ci offrono con i loro mondi la dilatazione della nostra prospettiva, in una mostra dedicata all’umanesimo, «Nell’accezione della sua capacità di non soccombere alla storia quotidiana, non riducendo le prospettive dell’esistenza umana», ricorda ancora Baratta. L’umanesimo, insomma, come atto di resistenza, e di generosità nei confronti del mondo. 
Christine Macel ci presenta questo “viaggio”, nel corso del quale artisti e opere si avvicineranno o meno in base agli oggetti e ai progetti che li accomunano. Non si tratta di una classificazione, ma di una coreografia, di un poema epico in un prologo e otto episodi, al quale però è lasciata ad ogni singola opera il rapporto con lo spettatore.
Centoventi presenze in totale, di cui centotré in scena per la prima volta, cinquantadue nuove produzioni, e gli incontri con gli artisti come pilastro fondamentale della mostra, secondo la visione di Macel.
«Un anno dopo la mia nomina, con tutto quel che è successo nel mondo, sono ancora più contenta di aver scelto questo tema, per cercare di “resistere” contro le forze – anche regressive – di questo tempo», attacca la direttrice poco fa, a Ca’ Giustinian. «La Biennale è spazio di riflessione, è preziosa: è l’alternativa all’individualismo. Per questo penso che gli artisti abbiano una responsabilità fondamentale».
Quella che si annuncia, insomma, è una biennale “fluida”, dove anche il ruolo dello stesso artista sarà scandagliato. «Voglio che sia un racconto, voglio far vivere un’esperienza. “Viva Arte Viva” sarà un Trans-padiglione che andrà al di là di confini geografici e porterà alla ribalta artisti che dovevano essere portati al successo prima, ma che per colpa di vite troppo brevi o mancate occasioni sono stati dimenticati», spiega Macel. 
Iniziamo, in sintesi, un primo tour teorico.
Il Padiglione degli “Artisti” verterà anche sul dualismo Otium e Negotium, sul vagabondaggio mentale, sul ritiro dalla sfera pubblica, raccontando attitudini e modalità di produzione con la messa in scena delle abitudini di Franz West, riscoprendo il pittore italiano Riccardo Guarneri, o con Dawn Kasper che per sei mesi lavorerà proprio in Biennale, con il trasloco del suo atelier, alternando stasi e azione; e poi Olafur Eliasson con il suo progetto Greenlight – per il quale chiederà la collaborazione anche degli immigrati, e Raymond Hains, per dirne alcuni. 
Padiglione “Gioie e paure”, per dimostrare come il sentimento sia ancora materia “discutibile” nell’arte, così come si discutono largamente le ansie del nostro tempo: tra i presenti Tibor Hajas e il pittore siriano Marwan, Rachel Rose, e qui ci sarà anche la “Tavola Aperta” degli incontri con gli artisti che saranno ripresi in streaming, e la sezione “Pratiche d’Artista”, un invito aperto a ogni padiglione nazionale ad inviare video di tutti gli artisti per scoprirli prima dell’opening (anche in questo caso i video saranno in streaming sul sito della Biennale), e il progetto librario “Je déballe ma bibliotequé”.
All’Arsenale il Padiglione “Comune” ovvero come raccontare la questione dell’aspetto pubblico dell’arte, riattivando anche utopie o narrandone la disillusione. E allora la riscoperta di Maria Lai, Anna Halprin, Marco àvila Forero
Padiglione “Della Terra”, dedicato proprio al pianeta e al suo futuro, con il gruppo giapponese The Play e i disegni di Kananginak Phootogook, l’intervento di Erika Verzutti alle Tese delle Vergini e Hao Liang, Francis Upritchard, gli assemblaggi di Yeesookyung.
Padiglione degli “Sciamani”, ovvero gli artisti come “missionari”, investiti della missione di occuparsi del mondo: torna così Ernesto Neto, con il risultato di due anni passati in compagnia di una tribù indigena che arriverà alla Biennale; Yunes Rahmoun e Jelili Atiku, con una processione di 94 donne.
Padiglione “Dionisiaco” sarà invece prettamente al femminile, con estasi e sessualità, danza, musica, ebbrezza, e la partecipazione di Huguette Caland ed Eileen Quinlan solo per dirne un paio. 
Padiglione Colore con un altro italiano “ripescato”, Giorgio Griffa, e i toni di Dan Miller, Karla Black per poi arrivare alla fine, con  il Padiglione del Tempo e dell’Infinitudine, con le installazioni-azioni di Edith Dekyndt, Vadim Fishkin, Hassan Khan, Kishio Suga.
Per ora quel che c’è nel piatto è abbastanza, sia per applaudire che per discutere, ma soprattutto per tracciare le prime fila di una ben marcata volontà critica. Vedremo nei dettagli, ma chiudiamo con l’impeto ottimista di Baratta: «Che questa arte sia sempre, e oggi più che mai, Viva, Viva Viva Viva!». 

1 commento

  1. Come sempre dispiace vedere che non ci sono molti italiani fra le nuove presenze, se ho visto bene c’è Arancio, Lai e Griffa, per il resto moltissimi abitano a Berlino, vorrà dire qualcosa?

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