21 settembre 2009

Trambusto a Via Ventura. Per uno start di Startmilano con happening…

 

di

69034

Nell’atmosfera da opening della stagione autunnale, con il popolo dell’arte instradato nei pellegrinaggi meneghini per Startmilano, un “evento” inatteso su strada ha movimentato la già fervente serata in via Ventura, il quartiere che ospita alcune tra le più frequentate gallerie del capoluogo lombardo.
Venerdì, serata inaugurale. Un gruppo di giovani raggiunge in auto Via Ventura 6. Dal bagagliaio estraggono un cartellone arrotolato, luci al neon e una lanterna da giardino. Scelgono una parete libera coperta da una lastra in compensato, affiggono la tela verde pistacchio che reca la scritta A tramp is walking around stealing hamburgers, la illuminano con la lanterna e i neon, uno dei quali ripropone a moduli l’immagine di un panino, tratta forse dai cataloghi Mac Donald’s.
Dulcis in fundo, un noto clochard di Milano stende un cartone, depone un cuscino e si accoccola sul marciapiede antistante, preparandosi a trascorrere la nottata tra il via vai generale. La performances fuori programma si è svolta tra l’attenzione e la curiosità dei passanti che si sono domandati chi ne fosse l’autore. È un giovane artista, si chiama Luca Armigero. Dietro le quinte, la galleria Placentia Arte di Piacenza…

[exibart]

11 Commenti

  1. confermo, anche se il sospetto non è originale: nel momento in cui chiunque si firma come luca rossi qualunque sospetto è assolutamente giusto. Ma suggerirei di non fermarsi al solito pettegolezzo.

  2. nelle gallerie di via ventura è evidente come le opere d’arte vanno sempre più trasformandosi in oggetti che non rivelano nulla del loro autore, opere senz’anima, senza identità, senza titolo.

    L’artista non ha il coraggio di prendere posizione rispetto a nulla, non sostiene niente, non affronta nessun argomento.
    Il tema viene risolto solo formalmente.

    Mi pare che quest’opera verde qui sopra si inserisca in un quadro di contrasto rispetto a questa tendenza…

    c’è bisogno di nuovo di qualcuno che riporti delle regole all’interno dell’opera d’arte.

  3. penso la cosa buona di questo gesto sia che nonostante la qualita’ discutibile o meno del lavoro, i giovani artisti debbano avere piu’ forza interiore e sentirsi piu’ liberi di lavorare snz farsi confondere le idee da cose che con l’arte nulla centrano.

    con una certa bonta’ commerciale…

  4. penso che una cosa buona dell’arte contemporanea sia proprio la possibilità di esprimersi senza necessariamente indicare al fruitore una univoca chiave di lettura dell’opera. Penso spetti invece allo spettatore uno sforzo critico interpretativo. L’opera fornisce uno spunto, certo x coglierlo è necessario possedere sensibilità e non diffidenza preconcetta. Io penso ad esempio alla problematica dei clochard che nella ricca ed efficiente metropoli lombarda resta una piaga sociale che – se nn fosse x le associazioni d volontariato – resta pressoché ignorato dalle istituzoni… Può darsi che qsta nn fosse esattamente l’idea che l’autore aveva in mente, ma penso che là dove egli riesca a comunicare qualcosa, il suo obiettivo sia stato pienamente raggiunto…
    Che l’opera in questione sia meritevole o meno è opinabile, certo non penso si possa dire “L’artista […]non sostiene niente, non affronta nessun argomento”, le “regole” lasciamole alle cosiddette scienze xfette!

  5. trovo orribile apropriarsi della denuncia sociale per far scaturire un pò di interesse alla gente!
    Questa non è arte!
    Poi qualcuno dice che così finalmente l’artista è libero? Ma per favore! Forse libero di prendere il posto del barbone!

    Questa performance, mi sembra brutta, quanto quella del cane legato al palo, senza mangiare.

  6. Quando abitavo a Parigi mi piaceva, nelle giornata di sole, fare una passeggiata al cimitero di Père Lachaise tra le lapidi centenarie e le imponenti tombe di personaggi illustri. Anche in inverno, il cielo francese regala luminosità primaverili che rendono struggenti i luoghi più oscuri.

    Una volta mi è capitato di incontrare un corteo funebre.

    Questa è l’immagine che mi ha ricordato lo start milanese: una serie di creature nero vestite si trascinano lentamente per i marciapiedi di ventura, inattenti al divenire del mondo, concentrati nella processione ai mausolei dell’arte dai doppi cognomi – aristocrazia contemporanea. Gonne nere aderenti, tubini e aderenze da lupa. Capelli rossi e dorati. Ton sur ton. Mi commuovo un po’. Penso: hanno una missione e sono bellissimi.

    Poi stanca, mi siedo sul marciapiede -alemeno quello non è sterilizzato, spero. Dal vuoto disarmante di contenuti del dentro e fuori via ventura, arriva, dal niente, un ragazzo. Porta una tela. La appende sul muro con leggerezza felina -una precisione da carta millimetrata. Poi, un altro. Questo porta dei tappeti, li srotola. Un’altro: dei tubi al neon. Poi una lampada. E poi tic, tac altri pezzi, come i camerieri quando dispongono sul tavolo i coperti senza che l’avventore faccia in tempo ad accorgersi della sua presenza. Silenzio, discrezione. Guardo seduta sul marciapiedi. Aspetto.
    Arriva un barbone – eccolo qui il clochard di Père Lachaise.
    Con una coperta in mano, si siede. Si accomoda, sdraia. Si copre, con calma e si assopisce.
    Le luci si accedono.
    Piccoli hamburger illuminano la notte stellata dell’unico vero romantico di via ventura: vivere senza tetto è vivere a contatto con il destino, i sogni e le stelle.
    Anche quando fa freddo.

    I nero vestiti si accostano timidamente, con rigoroso distacco al marciapide opposto a quello del nostro sognatore. L’artista si confonde tra la folla. Non gli importa di vedere, lui è il regista, ha l’inquadratura in testa e la sta proiettando. I passanti storditi nei loro tubini perdono le parole e, forse, si rifugiano tra le tartine. Come in “Bianca” nanni moretti si affaccia alla piccola finestra del seminterrato in cui è interrogato per osservare le scarpe delle passanti, così il nostro clochard, vede tutti nel loro contatto con il suolo.

    Dentro le gallerie è pieno e si parla di vuoto.
    Aggiungere un sì o un no a questa performance è non capire il principio che la conduce. Questo tipo di intervento si definisce nell’essere fuori dal sistema, pur standone a stretto contato: non lascia spazio alle domande.

    Come nelle processioni e nei luoghi sacri, invece del nero è, a volte, più appropriato il sacrale bianco, come in Giappone.
    O anche solo un rispettoso, composto, silenzio.

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