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Durante l’incontro Guerrilla Theory, l’opening del Modulo Arti del master dedicato agli studi e alle politiche di genere, Francesca Corona, co-curatrice del Festival Short Theatre, ha parlato di una concezione di festival che tiene le porte aperte, di un’organizzazione e una curatela che crea le condizioni perché le cose possano accadere e vedere che cosa succede. È banale dirlo, ma non tutto ciò che accade provoca realtà, ci deve essere uno scarto in più, e, per quanto riguarda un festival, sono proprio quelle le condizioni che lo rendono possibile, abbracciando, alle volte, l’errore e il fallimento.
Undici giorni intensi quelli che ci ha offerto quest’anno Short Theatre, che si riconferma come un appuntamento nodale nella città di Roma – dove provocare realtà può sembrare un’impresa titanica – tra prime nazionali e nomi di spicco della scena italiana e internazionale. Ma non sono i singoli lavori a fare di un festival un momento importante, ed è il discorso sul tempo e il creare le condizioni per l’accadere che diventa centrale.
In una conversazione dal titolo Festival come entità pensanti pubblicata su Build the time, primo numero di How to build a manifesto for the future of a festival, dove si problematizza il formato festival, Livia Andrea Piazza parla del “frattempo” come tempo del nuovo: «Credo che il tempo di un festival sia sempre un po’ autonomo rispetto al tempo fuori, su più livelli: l’inaspettato e la sorpresa ma anche il frattempo di qualcos’altro. E qui risiede la dimensione politica: apre possibilità al di fuori del tempo del festival». La tensione verso la costruzione di un frattempo si è sentita particolarmente in questa edizione di Short Theatre, che già dal sottotitolo “provocare realtà” poneva delle questioni attraverso una dichiarazione d’intenti. L’editoriale del catalogo parla di “evento performativo come possibilità” e dello spettatore come “interlocutore”, siamo chiaramente chiamati a interrogarci in maniera diversa di fronte a un oggetto festival con queste premesse. Siamo chiamati, in quanto spettatori, a una visione pronta ad abbracciare anche la lateralità delle cose, a spettacoli e performance che hanno bisogno di tempo per lavorare dentro o, al contrario, di una reazione immediata.
Muta Imago, Combattimento, Short Theatre 2018
Il tempo del camminare è centrale ne L’uomo che cammina di DOM-. Leonardo Delogu e Valerio Sirna conducono gli spettatori in un percorso nella città di Roma: se si decide di andare con loro ci si stacca, apparentemente, da tutte le temporalità possibili, come quando si intraprende un viaggio, con l’eccezione che questa volta non si sa dove si va (il percorso è segreto). Il Teatro Valle, luogo dall’incerto futuro ma fondamentale per chi teatralmente si è formato lì nelle sue varie fasi, è l’inizio della tappa romana del progetto di DOM-. Uscire fuori vuol dire immergersi nel caos cittadino, attraversare il centro di Roma, dove chi ci vive se ne sente alquanto espropriato a causa del turismo di massa che lo invade, e lo si attraversa sentendosi, in qualche modo, un po’ speciali. Cercare le azioni che allo stesso tempo esaltano e rompono la coreografia della città, obbliga lo spettatore a una tensione e a un’attenzione che è propria dello spettacolo. Siamo nel teatro più che mai. Una corsa in metropolitana trasporta gli spettatori nella zona di Eur Magliana, lo scenario cambia totalmente: un parcheggio, un ex campo rom, Monte Cucco e infine il quartiere Trullo, dove viene svelata l’identità dell’uomo che cammina, colui che il pubblico segue dall’inizio della camminata e la guida in questo viaggio. Un van arriva fino al lido di Ostia. Durante il viaggio musiche e parole accompagnano gli spettatori: Pasolini, Remo Remotti e Capibara, chissà se capiremo mai la complessità di questa città? A Ostia il pubblico continua a seguire l’uomo che cammina, fino all’ultima tappa: Idroscalo, dove la comunità che lo abita e che lotta per restarci, li accoglie. Il viaggio è finito ma è solo l’inizio.
Il camminare come pratica di esplorazione incontra il teatro, un incontro felice che, come affermano gli stessi Sirna e Delogu, vuole produrre convivenza più che conoscenza, vuole creare delle relazioni tra sensibilità comuni. In questo attraversamento non si incontrano solo zone felici, solo bellezza nella concezione più convenzionale del termine, il valore sta proprio nelle relazioni che hanno fatto accadere lo spettacolo, si legge un lavoro attento e amorevole nei confronti di un territorio che viene penetrato e non semplicemente mostrato.
Juan Domìnguez, In between what is not
longer and is not yet
longer and is not yet
E con la pratica del camminare avviene anche l’incontro tra James Leadbitter (aka the vacuum cleaner) e Jessica Huber e da cui ebbe inizio il loro progetto comune The art of a culture of hope. I due artisti raccontano che fu proprio durante una camminata che si trovarono a parlare di paura e speranza partendo dalle proprie esperienze personali. Ne è nato un progetto che riunisce diverse performance e formati, tra cui Tender Provocations of Hope and Fear, una serata nella quale J&J invitano artisti che lavorano su questi temi, e Space for Hope, un workshop che conducono con dei gruppi selezionati a seconda delle città dove sono invitati a lavorare. A Roma le loro giornate di workshop hanno coinvolto due realtà cittadine che lavorano per offrire sostegno ai rifugiati: Civico Zero e Baobab Experience. Nella lecture presentata a Short Theatre come restituzione del workshop tenuto nei giorni precedenti, J&J raccontano l’inizio del progetto e la loro esperienza personale con la paura e la speranza. Raccontano anche, attraverso esempi e immagini, dei workshop che hanno condotto in altre città. In una narrazione della quale lo spettatore, in qualche modo, poteva prevedere il corso, l’inaspettato prende invece piede: mentre c’è un resoconto dell’esperienza con Civico Zero, per quanto riguarda quella con Baobab Experience, J&J ci raccontano piuttosto di una presa di coscienza, di un errore e di un dire no. Ci sono domande che non possono essere fatte e argomenti che necessitano di tempo e delicatezza: quando è giusto fermarsi anche a scapito della “performance perfetta”? È la narrazione di questo errore e della decisione conseguente a rendere efficace lo sharing dei due artisti, sottraendo la performance a una possibile spettacolarizzazione ed evitando così, come loro stessi affermano, la rimessa in campo di politiche coloniali: rendersi conto di essere due artisti bianchi con tutti i privilegi che ne conseguono e quindi problematizzare chi parla e chi è invitato a parlare e in quale contesto, pratica che definiscono vitale per i tempi in cui viviamo.
Scatole di cartone con su scritta la data e, a volte, un luogo, raccolgono in maniera ordinata e accurata un anno di rifiuti dell’artista belga Sarah Vanhee. In Oblivion il tempo si sospende, il viaggio a ritroso nella propria biografia che compie l’artista dispiegando in terra ogni oggetto conservato non è mai sentimentale né tantomeno banale, ne emergono connessioni e incontri perché siamo fatti anche di ciò che distrattamente lasciamo indietro. Così come siamo fatti delle letture e degli incontri che invece riteniamo fondamentali, come racconta Juan Domìnguez in In between what is not longer and is not yet, nel quale ripercorre la sua vita, dissolvendo il proprio nome in un suono, facendo vivere al pubblico un suo momento di non trascurabile felicità offrendo un gelato, fino ad arrivare alla proposta di un gioco segreto per intaccare le maglie del tempo.
Se uscire dal presente – espressione usata da Tiago Rodrìgues in Antonio e Cleopatra per indicare il tempo dell’amore – vuole dire abitarlo più che mai, se provocare realtà vuol dire dialogare con il possibile, con il dire no, confondendo il vero con il falso, l’edizione 2018 di Short Theatre ha creato uno spostamento, che va al di là dell’indiscutibile qualità dei singoli lavori presentati. Uno spazio-tempo necessario all’incontro e al confronto, con condizioni pensate perché questo incontro abbia luogo (si pensi ai progetti in residenza Bad Peace e Little Fun Palace o a Panorama Roma), ma anche “lasciando le porte aperte” perché avvenga spontaneamente, per sconfinare al di fuori del tempo del festival, provocando realtà nell’immediato futuro.
Paola Granato
In alto: Annamaria Ajmone e Alberto Ricca, To Be Banned From Rome