16 novembre 2017

MUSICA

 
Lenz Teatro e Farnese, con Goethe, Hölderlin, Schoenberg, Benjamin, in “libretto” di Massimo Cacciari. Per gli archetipi della cultura
di Luigi Abbate

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Imagoturgia. Forzatura lessicale, moderno (o forse post-moderno) “logos” non privo di fascino. Parola-chiave per entrare nell’esoterica dimensione d’ascolto e di pathos che accomuna due produzioni date a Parma, a fine maggio scorso. 
Imagoturgia. Artificio tecnico, strumento di lavoro poetico, forse, nelle intenzioni dell’inventore di questo termine, il regista Francesco Pititto, con Maria Federica Maestri anima di Lenz Teatro, storica e ben connotata realtà teatrale parmense, spazio reale e metaforico di una scena che lavora sulle scaturigini generate dall’impatto fra le due eterne “faglie” del teatro, emozione e riflessione critica, offrendo i risultati di questo lavoro a privilegiate platee mignon. Anche  tradizione e coerenza estetica che si rinnovano in Questa debole forza, di cui Pititto firma anche la scrittura drammaturgica, e insieme con Maestri l’impianto registico. Parole affidate a due soli interpreti, in una dialettica recitazione-canto che ne incrocia i rispettivi ruoli: mentre lei, Chiara Garzo, catafratta in un nero costume a mo’ di marchingegno semovibile, dipana con intenso sentire frammenti hölderliniani – Cori da Edipo il Tiranno, e Canto di Iperione e Canto del Destino -, lui, il basso Eugenio Maria Degiacomi, pochi bianchi panni da San Sebastiano, accenna a piena voce, ma distantissima, echi dal Papageno del mozartiano Flauto magico. L’elettronico “sound live” di Claudio Rocchetti avvolge il tutto nell’umbratile Sala delle Statue all’interno del Museo Archeologico Nazionale.
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Lenz Fondazione, Questa Debole Forza – Maria Federica Maestri
Il legante programmatico fra la produzione di Lenz Teatro e quella del Teatro Regio, dislocata nel ligneo, sontuoso spazio del Farnese, si colloca all’altezza dei citati Canti hölderliniani, se possibile ad un ancor più complesso livello ermeneutico. Se infatti “imagoturgia” è parola che fissa il Kern drammaturgico ed emotivo dello spettacolo di Lenz Teatro, è proprio l’assenza della parola “detta” il nucleo concettuale del Prometeo – Tragedia dell’ascolto, musica di Luigi Nono su testi raccolti da Massimo Cacciari – macché “libretto”! lui stesso puntualizza – estratti da archetipici scritti della civiltà storico-letteraria e teatrale  –  Teogonia di Esiodo, Prometeo incatenato di Eschilo, quindi Sofocle ed Euripide, Erodoto e Pindaro – e agiti in dialettica con Goethe, Hölderlin, Schoenberg, Walter Benjamin. Parole, alcune delle quali affidate a due attori, che sarebbe stato bene – spiega Cacciari – limitare a una lettura non pronunciata dello stesso pubblico, quasi un ailleurs testuale sotteso al suono di solisti ed ensemble vocali e strumentali dislocati nella vastità spaziale del Farnese, rigenerati in phonos elettronico e movimentati in modo suggestivo da una sapiente regia del suono, il tutto a sua volta retto – su un pensile podio laterale – dall’abile ed esperto direttore Marco Angius, che ha ben definito il testamento compositivo noniano una “galassia sonora alla perenne deriva, il cui centro è costituito dal pubblico”. 
Chi a Parma ha potuto seguire entrambe le produzioni (lo spettacolo di Lenz di poco precedente al serale del Prometeo di Nono anche nelle repliche), ed è stato capace di farsi pienamente sedurre da due manifestazioni linguistiche così differenti ma per molti versi complementari, ha vissuto certo un’esperienza non ordinaria. 
      
Luigi Abbate

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