03 dicembre 2018

MUSICA

 
Intervista a Cristiano Leone, direttore Artistico di "Ō – Musica, danza, arte", alle Terme di Diocleziano
di Valentina Muzi

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Le Terme di Diocleziano furono costruite nel 298 d.C. dall’imperatore Massimiano con l’obiettivo di servire i quartieri del Quirinale, Viminale ed Esquilino. Quest’anno è arrivato “Ō – Musica, danza, arte” nato da una fruttuosa collaborazione tra Electa e Museo Nazionale Romano diretto da Daniela Porro. Un festival che dal 14 settembre al 16 dicembre 2018 vede protagonista l’arte – tutta – senza mai eclissare il malioso sito. Ne abbiamo parlato con il Direttore Artistico Cristiano Leone.
Le Terme di Diocleziano è uno dei siti archeologici più suggestivi che Roma offre. Riprendendo uno stralcio del libro “Oltre la paura. Lettere sul nostro presente inquieto” di Mons. Massimo Camisasca -vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, e Mattia Ferraresi – corrispondente del Foglio da New York: “La dimenticanza del passato è uno degli errori più gravi che un popolo può fare. Può capitare anche nelle persone. (…) Vivere vuol dire tessere una tela di storia composta di una trama e un ordito che sono fedeltà e innovazione”. Cosa ne pensi?
«Penso che sia fondamentale conoscere il passato ma ogni conoscenza è una forma di interpretazione. Qualora dovessimo studiare testi storiografici che ci riportano al contesto dell’epoca è sempre una visione soggettiva, sia quella che ci ha raccontato la storia che la nostra nel “guardare alla storia”. Per questo secondo me l’unico modo di farla rivivere è reinterpretarla ovvero riappropriarsene per poterla trasmettere, ed è forse quella la maniera in cui la si comprende in una forma d’intelligenza etimologica, di leggere tra le righe, e quindi poi riuscire a percepire i segni e le tracce del passato. Però per poterle percepire abbiamo bisogno di visioni. Chi riesce a trasmetterle sono gli artisti. Sono convinto che oggi per capire il passato abbiamo bisogno di osservarlo attraverso la lente degli artisti, che lo sublimano, confrontandosi con quelle tracce che emergono dalla sua osservazione».
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William Basinski per Ō, foto di Andrea Serrau
Viste le poche proposte culturali che Roma offre (salvo per eccezionali e innovative realtà di cui “Ō” fa parte), come Direttore Artistico e Curatore cosa pensi che debba fare la Capitale per poter tornare ad essere un centro propulsivo di arte, condivisione e partecipazione?
«Coordinarsi. Per me è essenziale che le Istituzioni romane facciano sistema e che comprendano fino a che punto a Roma coesistano due realtà che forse oggi sono separate, ovvero: i romani e coloro che visitano Roma. Due emisferi che non si toccano spesso. Invece è proprio da questo contatto che Roma può riassumere il suo ruolo di Capitale Internazionale. Quindi può farlo non soltanto tracciando dei sentieri separati per i turisti ma facendo abbracciare il cittadino e il visitatore».
La musica è stata protagonista indiscussa degli eventi di “Ō” insieme all’arte contemporanea. La prima libera le emozioni sopite e la seconda ci porta a riflettere sull’oggi. Un binomio perfetto che ha dato risultati straordinari. Da dove è partita la tua ispirazione?
«Per me non c’è una reale differenza nelle arti. La produzione contemporanea quando assurge a dei livelli estremamente elevati è arte e la divisione, questa sorta di etichetta che descrive “Ō”, crea una triade tra musica, danza e arte che in realtà per me è la declinazione della stessa forma. Per me è fondamentale oggi dato che il ruolo dell’artista è un ruolo quasi ineffabile, difficile da descrivere e da catalogare, perché -appunto- essi contaminano diverse forme e realizzano sempre più percorsi multidisciplinari. Quindi uno stesso performer (utilizziamo questo termine per indicare delle forme artistiche che includono differenti possibilità artistiche) in realtà al suo interno ha una contraddizione, una complessità, che forse sono proprio i Direttori Artistici, curatori, che devono iniziare a sciogliere. Per me oggi non è concepibile chiudere i musicisti nei teatri e gli artisti contemporanei nelle sale da museo. Credo che oggi le istituzioni culturali debbano accogliere il meglio di tutte queste forme artistiche e debbano farle dialogare. Per questo “Ō” è un confronto tra artisti dei vari campi della creazione con la propria storia o con la storia che, comunque, è stata la culla della civiltà occidentale che quindi ha fatto parte del loro bagaglio culturale. Il loro confrontarsi con la storia dà luogo a voci, gesti, movimenti, forme, sostanze, impronte. Per me questa è l’arte. Quindi non vi vedo una differenza tra musica, danza e arte».
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Anna Calvi per Ō, foto di Andrea Serrau
Cosa vuoi che arrivi al pubblico in termini di visione, interiorizzazione, cambiamento?
«Per me è importante che arrivi la ricerca. Per me queste tre forme d’arte hanno senso solo quando sono frutto di una lunga ricerca, di un approfondimento, di una cura, di una fatica, di una disciplina. Perché dopo tutto questo sforzo possono dare spazio a tutte le sue forme. Quando io cerco di fare una proposta per il pubblico la cosa a cui penso è: quanto il pubblico possa essere perturbato dall’offerta? Quanto questa proposta possa smuoverlo dalle certezze acquisite? Per me è importante che il pubblico rifletta. Che si confronti con sé stesso attraverso una proposta sperimentale. Questo è il senso della sperimentazione e l’idea di abbracciare ciò che c’è stato per dare forma a nuove esistenze. Ogni nuova realtà implica -necessariamente- un confronto con il nostro essere e una riflessione sul ruolo che abbiamo nel mondo. La sperimentazione consente di chiedersi chi siamo».
Ti senti più curatore o fruitore?
«Questa domanda mi permette di esplicitare la mia percezione di ciò che un curatore dovrebbe essere, ovvero: un fruitore. Dico questo perché quando immagino un progetto mi immagino sempre come spettatore, perché il ruolo del curatore non è semplicemente quello di seguire l’artista ma è forse – soprattutto – curare il legame tra l’artista e il pubblico. Quindi curare il pubblico e accompagnarlo in questo dialogo».
Valentina Muzi 

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