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La vita silenziosa e per nulla innocua delle opere di Hermann Bergamelli
Mostre
di Luca Maffeo
Il mondo corre, muta, varia, torna a interrogarci nella sua tragicità. Del fare arte dovremmo non occuparcene; le questioni fondamentali sono altre, potremmo dire! Eppure la cerchiamo. Osserviamo attenti per trovare quel briciolo di poesia che sblocchi l’impasse di una vita subita nel mezzo del caos; l’ordito di quello che una volta veniva chiamato “il bello”. Ciò che propone la terza esposizione personale di Hermann Bergamelli (Bergamo, 1990) presso la Galleria AplusB di Bergamo, e visitabile fino al prossimo 29 novembre 2025, è di fatto «una calma apparente». Così afferma il curatore Edoardo De Cobelli, pronunciando nella sintesi della scrittura il metodo e l’approccio a cui l’artista ci ha abituati.
È un lavoro silente, per nulla innocuo, che muove il suo ambito dal tessuto al dipinto. Un dipinto che è tessuto e la tessitura che si fa opera pittorica, per mostrare, senza simbologie posticce, quel che semplicemente è. Un “fare letterale” che già nel titolo stabilisce una melodia: La plus que lente, ricordo dell’omonimo brano di Claude Debussy, è un insieme di pratiche ma, in realtà, una sola. Diversi movimenti, il classico della musica che ritorna secondo un gusto materico. Tridimensionale pensando ai totem (esposti ora per la prima volta), ossia parallelepipedi verticali cavi riempiti di frange regolari di lino, cotone o carta (Composizione 10001; Composizione 1001, 2025).

Compatte nel loro insieme e per l’involucro rigido in cui esistono. Frammenti di tessuto colorato serrati l’uno sull’altro e cionondimeno morbidi e rilassati. L’apice scultoreo a cui l’artista giunge, ulteriore variazione che incontra in mostra il suo espandersi. Lo abbiamo detto, l’esperienza estetica che si fruisce è letterale, al fine tautologia e riverbero di un cammino. Il tessuto è il gomitolo iniziale che si disfa per essere ricomposto. Dapprima attraverso una stesura pastosa dell’olio sulla tela, dove un’altra volta sorgono gli intrecci di una finissima maglia dipinta (Un viola agitato; Verde con moto; Verde lento, 2025), per poi essere accenni di una figurazione in filo di lana ora confusa sulla iuta del supporto.

Nell’opera Mosso (2025) «scorgiamo appena parti riconoscibili in un intrigo di fili che entrano e appaiono, come se la superficie evocasse una terza dimensione». Larghissimo con una certa velocità (2025) dal canto suo esplicita l’essenzialità del metodo adottato: «la ripetizione di un singolo elemento arriva a far perdere le tracce della sua origine figurativa», scrive a ragion veduta De Cobelli.
Ancora una volta nel suo senso letterale, ordita, tramata, cercata e trovata, l’arte di Hermann Bergamelli vive della “ripetizione” già citata, ossia di un chiedere di nuovo (ri-petere) che è desiderio nel suo senso etimologico. Il filo, come le composizioni scultoree o le stesure a olio acquistano pertanto la valenza di una nota tra una pausa e l’altra.

Cosa mettono in luce? La vita stessa. Percezione e sensazione, ragione e dismisura. Indicano, in altro modo, cadono ed evocano. Come in uno spartito in cui riecheggiano visivamente quiete e calma, intensità e dinamiche. Varianti di una medesima estetica che affrontano la temporalità immanente di una storia propria. Il pieno e il vuoto, quel non riuscire mai a essere pur essendo già. Per dirla con Roland Barthes, si dispiegano permettendo magari che il bello non sia più parola vacua, giacché intrecciata nella grande forma di un racconto.














