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Biennale di Architettura 2023: i padiglioni da non perdere a Venezia
Architettura
di Alessandro Virgilio Mosetti
The Laboratory of the Future è una biennale terrosa e accogliente che invita ad un ripensamento dei fondamenti della disciplina architettonica a partire dalla definizione della figura dell’architetto come “practitioner”, secondo la definizione della curatrice Lesley Lokko. Le azioni collettive anticipano e sono esse stesse il progetto, gettato, per sua natura terminologica, nello spazio per chi lo abita. L’architetto/practitioner è una figura antica e nuova che proietta la propria cultura architettonica/artistica nello spazio attraverso tecniche del progettare trasversali e trans-disciplinari – un griot – attivando, rigenerandolo e curando lo spazio delicatamente. I supporti canonici di racconto del progetto architettonico (disegno planimetrico/alzato, modello) cedono il passo ad allegorie lavorate in video, modelli, materiali, spazi di azione dove si muovono corpi.
Tra i progetti presentati dalle partecipazioni nazionali di questa Biennale di Architettura 2023, possono essere individuati alcuni temi di ricerca ricorrenti. Tra questi il suolo: l’elemento “terra” e la sua malleabilità diviene il mezzo narrativo attraverso cui ci è possibile ricondurre l’esperienza dell’architettura di oggi e del futuro alle origini di una pratica spaziale antropica sostenibile nei confronti del naturale. Sono progetti di allestimento uniti da un comune senso di cura del paesaggio antropico-naturale che abitiamo: terra per proteggere e abitare, terra per evocare, terra per edificare. Terra per proteggere e abitare. La terra è modellata per renderla abitabile: uno spazio che protegge e resiste (anche alla guerra). È il caso della linea di fortificazione ucraina modellata nel terreno dello Spazio Esedra ai Giardini che diventa uno spazio di ritrovo collettivo. Il progetto site specific si pone in continuità con il progetto Before the Future curato per il Padiglione dell’Ucraina da Iryna Miroshnykova, Oleksii Petrov e Borys Filonen presso la sede dell’Arsenale.
Terra per evocare. La terra, o meglio il terreno, è un manto morbido e accogliente nel progetto Terra a cura di Gabriela de Matos e Paulo Tavares per il Padiglione del Brasile, fresco di vittoria del Leone d’Oro come miglior Partecipazione Nazionale della manifestazione (qui l’intervista esclusiva ai curatori). Qui, il forte odore del tappeto di terra bagnata e dei volumi di supporto al progetto di allestimento, anch’essi di terra compattata, ricostruisce una atmosfera indigena nella quale ci si sente inaspettatamente a casa, nuovamente in una dimensione collettiva e famigliare. Il terreno che riempie il padiglione costituendone il pavimento interpreta il legame tra antropico e naturale attraverso il racconto delle modifiche che l’uomo ha impresso all’ambiente: le pratiche spaziali, forme di design contemporanee che vengono presentate nel padiglione si riallacciano a quelle ancestrali degli indigeni Quilombola in una sorta di evocazione di un sapere costruttivo e di una gestione delle risorse naturali virtuosa. Ed è probabilmente questa continuità nella modificazione antropica del terreno che rende i luoghi dell’installazione inaspettatamente famigliari.
Terra per edificare. Il progetto Unbuild Together: Archaism vs. Modernity a cura di Studio KO 20 per il Padiglione della Repubblica dell’Uzbekistan riscopre le potenzialità tecnologiche e culturali di una modalità costruttiva tradizionale arcaica, come quella del muro portante in mattoni di terra essiccata della tradizione uzbeka legata alla cultura costruttiva delle fortezze qala, oggi in rovina. Architetture di terra perdute rivivono nello spazio del padiglione attraverso un progetto di allestimento che è un percorso labirintico tra due nastri di muri che si allontanano e riavvicinano creando stanze, immerso in un paesaggio notturno illuminato da improvvise lame di luce.
In molti dei casi, i padiglioni nazionali procedono nel senso di un vero processo di decolonizzazione a partire dal ripensamento dei propri spazi e delle proprie strutture edilizie. Sono padiglioni che lavorano su sé stessi, elaborando progetti di allestimento che riutilizzano materiali dismessi; oppure sono padiglioni che si sigillano (come nel caso del Padiglione dell’Israele) o che si aprono a dismisura laddove c’era un muro, tentando approcci con la città fuori dal recinto.
In questo consenso assume senso il “taglio” del muro di confine tra il Padiglione della Svizzera e il Padiglione del Venezuela. Il progetto Neighbours a cura di Karin Sander e Philip Ursprung unisce i due padiglioni; il “recinto” è aperto rendendo evidente e spazialmente percepibile la relazione di prossimità tra i due spazi, tra due culture architettoniche differenti per origine, geografia e impostazione culturale. Il dialogo è (ovunque) possibile e non è legato ad una sola relazione di vicinato, e laddove fatichi a concretizzarsi in un atto spaziale è possibile facilitarlo con azioni-progetti mirati.
Il Padiglione dell’Austria, curato dal collettivo di architettura AKT e da Hermann Czech, espone una riflessione sull’usabilità pubblica (nonché sull’accessibilità) degli spazi espositivi della Biennale di Venezia oltre la loro finalità originale. Alcuni progetti pilota ipotizzano architetture di connessione e ricucitura tra ciò che sta dentro e fuori il recinto “del vivaio” dei padiglioni. L’escamotage è quello di sorpassare le barriere fisiche che separano gli spazi interni da quelli esterni (ma qual è l’interno e quale l’esterno?) con collegamenti verticali (scale) e orizzontali (camminamenti). Si tratta di un tema di discussione “antico” che si avvale anche del contributo di Unfolding Pavillion con il progetto Open Giardini a cura di Daniel Tudor Munteanu e Davide Tommaso Ferrando: investigando i perimetri delle sedi espositive si cercano punti di rottura (o di contatto?) tra lo spazio scenico della mostra e la città.
Il Padiglione della Germania, con il progetto Open for Maintenance curato da ARCH+, Summacumfemmer, Büro Juliane Greb, si presenta come un magazzino-laboratorio (un cabinet delle meraviglie dimenticate) nel quale investigare le potenzialità della transizione socio-ecologica legata all’industria delle costruzioni, tramite il riutilizzo degli allestimenti della Biennale Arte 2022. Lo spazio allestito del padiglione ospiterà numerose azioni performative e talks promossi dall’iniziativa Performing Architecture del Goethe-Institut, che trasformeranno le parole chiave del progetto curatoriale (inclusione, cura, manutenzione, riparazione, rigenerazione) in azioni-installazioni spaziali a scala urbana, oltre lo spazio imposto dal padiglione.
Il progetto di allestimento per il Padiglione del Belgio con il progetto In Vivo curato dall’associazione Bento e Vinciane Despret, sperimenta nuovi campi di applicazione per materiali edili organici di nuova concezione La sala centrale del padiglione è occupata da un telaio spaziale in legno a formare un recinto. La struttura è rivestita da piastrelle di un materiale compattato di origine organica, che schermano uno spazio domestico nel quale fantasticare sul futuro che ci aspetta. Lo spazio, silenzioso e carico di materialità tattile e odorosa, potenzia un progetto curatoriale che prende atto del fatto che le risorse per il sostentamento dell’umanità, e del suo abitare, siano finite.