17 settembre 2022

Fredrik Vaerslev e Louise Lawler – Indipendenza

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Louise Lawler e Fredrik Værslev sono i protagonisti di una doppia personale da Indipendenza, che esplora la tensione tra opera d'arte e contesto architettonico circostante

Fredrik Vaerslev e Louise Lawler alla galleria/appartamento Indipendenza di Roma

La tela grezza, in tonalità grigia o marrone, attende l’evento; Fredrik Vaerslev interpreta la superficie come membrana che avverte lo spazio che la circonda, quasi fosse disposta all’ascolto, a una memorizzazione dello spazio e della sua conformazione storica. Vaerslev, in queste tele del 2022, pone la superficie in attenta ricezione dello spazio “esistente” di un’abitazione di fine ottocento: i pavimenti degli anni venti hanno disegni di articolati riquadri contornati da una larga fascia di graniglia di piccoli frammenti irregolari, marroni, bianchi, ocra, neri, grigi scuri in un impasto grigio chiaro, una parete è coperta da una stoffa degli anni venti con un disegno ripetuto rosso e bruno di un paesaggio cinese con un tempio, un albero contorto e un decoro floreale, altre stanze non sono restaurate e hanno ampie e evidenti scrostature rosso cupo su bianco.
Questa atmosfera di tempo “vissuto” attrae la mente dell’artista per disporlo a creare dei dipinti intimamente connessi a questi particolari; ma egli non li trasporta nei quadri in una rappresentazione, bensì crea nei dipinti una risonanza che ad essi si lega. L’azione è astratta, planare, in una stratificazione minimale che riduce all’estremo la grammatica dell’azione sulla tela in un’apparenza tanto radicale quanto viva.
L’azione pittorica ha due tempi – tre se si considera il piano grezzo della superficie –, ambedue compiuti senza toccare direttamente la tela, lasciando cadere e proiettando il colore – supponendo che l’azione avvenga in un primo tempo con la tela orizzontale e in un secondo tempo con la tela verticale (ma forse anche questo secondo tempo si svolge con la tela orizzontale) –: prima una pioggia rada in cui le gocce toccano, in distinti colori armonizzati tra chiaro e scuro, la superficie che li assorbe – si intuisce qui che l’azione è equilibrata, diffusa, quieta, componendo uno sfondo aperto al fondo della tela –, il colore è “piovuto” assai liquido dall’alto in basso; invece nel secondo tempo il colore è più denso, ma non al punto di creare un volume polposo sulla tela, e rimanendo rialzato di appena un millimetro in una stesura piatta: è colato sulla tela, schizzato, portato con dinamismo in segni frastagliati corsivi o ordinati, in tracce fine o larghe, colmando l’ampiezza della superficie, a volte restando all’interno del bordo, altre volte volendo oltrepassarlo, in singole tele verticali o in polittici di tele affiancate. La tela, precedentemente dipinta, gira sul bordo del telaio, così creando un salto nella continuità dei segni tra due bordi adiacenti, in uno scarto che isola l’azione nello spazio di ogni superficie, facendo sì che l’unità complessiva della composizione – pur esistente e godibile – non prenda il sopravvento mascherando e cancellando dall’esperienza dell’osservatore lo spazio esistente del supporto – esso è parte attiva nel significato dell’opera.
Nel secondo tempo, le diverse azioni allungate dei corpi appiattiti di colore, marcano il territorio della superficie, in distinte meccaniche apparenze da quadro a quadro, con grande metodo e controllo, simili all’azione di impronte che appaiono e restano sopra lo sfondo della miriade di larghi punti scoppiati in microgocce tutt’intorno al loro cerchio. Sul pavimento di una stanza si accumulano le tracce di impronte di passi umani e animali, di oggetti temporanei o stabili, di accadimenti profondi o superficiali: tutto questo è radicalmente sintetizzato dalla grammatica ordinata e chiara che abita queste tele, solitarie oppure in brevi o lunghi polittici. Il secondo tempo, di larghe e ripetute tracce, che si toccano o si guardano o si intersecano, che differiscono o si imitano, traduce un mondo concreto di “cose” che trascorrono negli ambienti di una specifica abitazione, trascinandosi dietro quella materialità, spostandola e registrandola. Le tracce sono radicalizzate in un potente evento corporeo astratto, perché esso esemplifica il linguaggio della registrazione di un passaggio d’informazione tra un ambiente artificiale umano (casa) e un oggetto artificiale umano (manufatto o passo) vissuto o passato in quell’ambiente, in cui ognuna delle parti conserva una frazione dell’altra, e la traccia di Vaerslev è intrusa e adattata al “luogo” in cui si trova.
L’imprimersi di un’impronta è reso da Vaerslev con l’appiattirsi di una traccia sopra uno spazio aperto al sottostante che lo regge, e queste tracce sono intersecate e galleggianti e aperte tra loro: la pressione dell’incontro di due cose – si direbbe: l’inevitabile e brutale collisione – è dall’artista resa percepibile con uno svuotamento del contatto, un galleggiamento del tocco. Quindi: ogni cosa (tracce) appartenente al secondo tempo, quando tocca le cose (punti) del primo tempo, attraversa un vuoto leggero e stratificato (di vuoti) che trasmette e conserva l’essere presente, esemplificando la propria Storia in un galleggiamento di strutture diverse di segni che sembrano sfiorarsi e quasi si compenetrano. Di più: tela, punti e orme sono i tre stadi di una composizione che si svolge praticamente sullo stesso piano, eppure per la loro distinta natura si allontanano concettualmente e fisicamente in una comprensione del trascorrere delle cose chiuse in un ambiente, il cui comportamento è di riposizionarsi nello stesso luogo – la tela è uno spazio che ha un orizzonte sgombro proprio perché esiste intero senza pittura, ed è quindi estremità di una bolla che trattiene e fa galleggiare dentro di sé la materia di un ambiente, lo stratificarsi dell’accaduto.
La forza di queste opere consiste nel loro essere intrinseco, ossia non dipendenti da altro – ho parlato di orme, ma non si ha bisogno di vedere delle orme nelle “tracce pittoriche” per godere della loro presenza, poiché esse sono “presenze sopra” e questo basta, anzi il loro essere “presenze sopra” fa in modo che le si viva come incorporanti la Storia delle orme, la Storia delle visite, una Storia di storie non raccontate nel dipinto ma esemplificate in quella grammatica dell’”apparire leggero” o “apparire piatto” (dei tre tempi o stadi) dove si trova l’origine concettuale e esperienziale di quelle storie e della Storia agenti nel luogo che le accoglie. Per cui tra le tracce di superficie (secondo tempo) e le leggere gocce di colori assorbiti sottostanti (primo tempo) c’è una tale dinamica di differenziazione, che, tra i due tempi, si accumula una varietà del “sentire” che si accende e si alimenta in un processo aumentante. E queste due presenze dal contrasto “parlante” – tra loro e in loro – stanno sul e “nel” vuoto-pieno della tela: grezza e visibile, grezza e piena della propria materia, improvvisamente e durevolmente estranea alla materia pittorica dei “due tempi” che la abitano in successione. Ogni parte esiste prima per se stessa e poi nell’insieme, questa è l’alchimia del reale che rintraccia Vaerslev, e che espone in maniera arricchente (voluttuosa) dal suo fulcro semplice e radicale. L’opera di Vaerslev è, in generale e anche qui nel corpo nudo e segnato di questa abitazione, stringata e affascinante, e, per ogni opera presente, si possono aggiungere gli aggettivi: “ravvicinata”, “prossima”… “dialettica”.

Louise Lawler alla galleria/appartamento Indipendenza di Roma

Le opere dell’artista Louise Lawler dividono lo spazio con i dipinti di Vaerslev. Il mondo è pieno di “cose” e lo spazio che ci divide dalle “cose” è per forza, per sua natura dimensionale, deformante. Così la Lawler è un’artista realista che indaga l’obbiettività di questa deformazione. Ora, se le “cose” esistono dipendenti dall’aria in cui sono immerse, dalla luce che ne trasporta l’immagine, dal cervello che produce la loro realtà, è chiaro che se è indubitabile la dipendenza delle “cose” dal momento deformante che le mostra e le fa esistere, è altrettanto vero che la deformazione vera e unica da cui dipendono non è oggettivabile. Quindi la Lawler utilizza una serie di espedienti, di tentativi diversi, tutti riusciti, di mostrare il reale deformato, un reale che si avvicina all’inattingibile realtà e che vuole avvertirla intensamente, sfiorarla quasi.
La grande stampa di una foto di un ambiente – è un museo: le opere d’arte sono le “cose” vere più ambigue – deformato da una prospettiva estremamente ondeggiante; il foglio gigante dove giganteggia l’immagine deformata è incollato alla parete, e pretende di modificare lo spazio e la percezione della materialità circostante, influenzandola aderendo all’architettura. Delle mezze cupole di vetro pieno, non più grandi di mezza palla da tennis, aspettano l’osservatore che guarda un oggetto trasparente che mostra un’immagine sottostante solo nel momento in cui è osservata perpendicolarmente; l’oggetto esiste e si tradisce, l’immagine non c’è e poi appare deformata dal filtraggio del vetro pieno: l’ambiente della stanza reale lotta con la superficie riflettente e trasparente dell’oggetto, mentre, l’ambiente ritratto nella foto – spesso opere d’arte lo decorano –, che è bidimensionale, tenta di ritrovare la tridimensionalità nella forza leggermente deformante della falsa trasparenza, tentando di attraversare il vetro pieno, in modi cangianti rispetto al mutare della nostra posizione d’osservatori. Diverse carte sempre incollate a parete, più piccole e centrate, mimano la posizione di un quadro, e sul bianco della carta delle semplificate e impersonali linee nere che descrivono per lo più i profili delle cose oggettuali ritratte; dai profili di ombre bianche l’osservatore tenta di ricostruire, da quell’assenza, il pieno di una presenza che esiste memorizzata nell’esperienza dei nostri cervelli, del falso reale del mondo che è ora più vero esistendo nella camera della nostra memoria soggettivante, ridando vita a un luogo che nemmeno esiste o che esiste altrove da noi e che noi dobbiamo ora colmare, con le nostre lacune – la stessa specificità degli oggetti, alcune forme o particolarità, stranezze, apparenti incongruità o apparenti somiglianze, sono tutte verità deformate dall’assenza, e quella mancanza è una lente che rende più vere le “cose”.
La deformazione aliena l’identità, delle “cose” e dell’osservatore fino al popolo, ma la società e la sua gente meglio si riconosce in questa deformazione, in questo tradimento, che li svuota mentre li descrive. L’opera della Lawler non è né inquietante né confortante, ci offre soltanto ciò che è, quasi senza commento – anche il commento è spiazzante, deformante, definitivo senza essere assertivo.

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