12 giugno 2022

Gastone Biggi, Trilogia – PoliArt Contemporary

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Per Biggi la pittura è un momento della mente che si riabitua a se stessa, e la sua opera pittorica è un esercizio liberante, una pulitura, un riprincipiare dell’armonia

Gastone Biggi, Continuo 16, 1962, Tempera su tela, 40 x 50 cm

Il punto di Biggi è largo, si espande in maniera dolcemente irregolare, può sembrare un lago circondato da una terra, invece è una goccia dilatata, distesa su una superficie, e da essa si solleva con la propria densità. È per lo più bianco e sta in campo nero; a volte ha un bianco compatto, altre volte il bianco ha zone trasparenti. Guardandolo da vicino, è contenuto in se stesso, tranquillo di materia, ed è senza peso, denso di un’assenza di peso.
Il punto di Biggi ha una corporeità presente che fa risuonare il vuoto, forse fino a farlo suonare, ed è lo spazio immenso del nero, sprofondato in se stesso. Il punto non esiste in un solo posto, è contemporaneamente in tanti posti, è un luogo fatto di luoghi, là dove si trova, in qualsiasi ovunque. Il pittore allora lo dispone nei suoi molti infiniti luoghi, e lo ripete nello spazio di una profonda superficie nera, colmando la tela con la sua successione che Biggi sa essere viva, disposta da un punto che mostra i suoi punti di sé – mai slegati –, e, facendoli apparire in successione uno dopo l’altro, essi restano legati dall’uno all’altro, attraverso il nero che li divide e che trasmette un ‘punto di sé’ al successivo ‘punto di sé’ in una continuità che vibra legata attraverso una distanza nera.
Biggi inventa la ‘continuità’ e la rende visibile; la continuità crea il punto come sua essenza germinale: quindi la continuità genera il punto, e il punto genera la continuità: non vi è più nell’atto creativo un prima e un dopo, ma una compresenza di parti prive di tempo che si alimentano a vicenda e che si servono dell’artista, del pittore che dipinge e le mette in atto rendendole visibili, e la continuità e il punto si propagano ‘brillando’ un’energia che si serve dell’artista e del pittore, ponendoli a posteriori dell’opera creata. Rembrandt decide cosa e come deve dipingere, le sue energie mentali concepiscono la pittura che appare; in Biggi accade l’opposto, il pittore dispone i punti senza doverli concepire – il punto si concepisce! – e la continuità di essi rientra attraverso ogni gesto – ripetuto, oltre-meccanico, proto-biologico – e colpisce il non-pensare che li ha generati, così essi parlano uno schema che è nella mente prima che essa parli, facendola risuonare e suonare dentro di sé e fuori di sé nel dipinto che già va cercando la sua ulteriore, successiva, continua, generazione. La musica del vuoto che si anima da questi dipinti ha una qualità ricreatrice del mondo, e una qualità ripulente del funzionamento della mente – nel mondo, privato e pubblico, con se stessi, con gli altri, nella società, e può essere matrice politica, generazionale.

Gastone Biggi, Continuo 7, 1962, Tempera su tela, 40 x 50 cm

Biggi deve abolire i colori perché i colori sono derivati dal mondo e non possono sfuggire al mimetismo dei colori del mondo – Stanley Whitney lavora con il colore solo, slegato dalla cosa, identificandosi con se stesso, ma è comunque estratto dal mondo; ossia egli isola il colore dal mondo per renderlo libero davanti allo spettatore, ma lo ha estratto dal mondo. Fuori dall’appartenenza del mondo Biggi trova la linea ma deve rifiutare anche questa, poiché essa, mossa e ondulata, ha una propria personalità che la riempie, e all’opposto, geometrica, rigida e angolata, ha una distaccata personalità. Egli quindi non la traccia ma la scrive liberandola, dall’angolo sinistro in alto, in un procedere vario e orizzontale a colmare la superficie dall’alto al basso (tracciare è dare forma diretta a un’idea, scrivere è porre un sistema arbitrario di segni che in un secondo momento rappresentano un’idea); Biggi in questi quadri vuole la successione continua che precede l’idea e la forma – in Continuo 7, 1962. In seguito egli spezza la linea e sovrappone due tratti in successive ‘x’ irregolari: la direzione della linea è abbandonata e l’insistere in più luoghi successivi è creato; la sovrapposizione di due tratti non è un accumulo ma ha un paradossale alleggerimento del peso della ‘cosa’ apparsa e continuamente ritrovata: in effetti le ‘x’ non significano, non sono né forma né simbolo perché non hanno altro motivo se non la sovrapposizione di due tratti quasi uguali di linea spezzata; ciò che risulta intensamente rafforzato da questa disposizione è l’apparizione reiterata di una medesima ‘cosa’, un impulso che ritorna ad essere sempre lo stesso eppure diversificato – in Continuo 16, 1962. Ma anche in questo caso, due tratti di linea spezzata – essi sono lo stesso tratto e non tratti successivi di una medesima linea – conservano purtroppo uno spazio interno, un corpo che ancora vuole rivendicare una propria caratteristica; Biggi capisce che il vero luogo che ogni croce va ribadendo sta nell’intersezione dei due tratti di linea, nel ‘punto’ d’intersezione, allora egli decide – in Continuo 96, 1963 – di liberare il punto e di renderlo visibile, e di lasciare che esso si generi privo di una geometria direzionale che lo ingabbia – la precedente croce ne è segno. Il punto si allarga, si rende visibile, è un disco che reagisce al tocco solo e unico del pennello – il pennello non scivola più per un tratto di tela, ma si emana ad un solo unico tocco che incontra perpendicolare la superficie. Il punto è sempre se stesso nella successione, e la successione è una continuità poiché il pennello tocca il punto che forma, che si forma, il punto non va mai oltre se stesso in una sola traiettoria. I punti sono lo stesso punto che si riforma continuamente, ed è sempre se stesso nella sue infinite unicità.

Gastone Biggi, Continuo nero 57, 1962, Pittura Morgan’s su tela, 40 x 70 cm

I punti bianchi si distanziano nel nero di fondo, e il sistema di punti domina lo spazio esterno al dipinto, imponendo allo spettatore un’invasione dello spazio da parte di punti non dipinti, ed è uno spazio creato dai punti non dipinti ed esistenti quanto quelli dipinti, cosicché il punto è cosa mentale oltre-fisica, che filtra nel fisico materiale e lo abita, lo genera – in Continuo nero 57, 1962. I punti si mescolano e perdono l’ordine lineare e sono continui in un movimento loro di potenziale aggregazione, di azione che è richiamo tra i punti, in un’energia formicolante che si appresta a qualcosa – Continuo Spaziale, 1963.
Negli anni settanta i ‘Continui’ diventano ‘Variabili’ e i punti si aggregano in un ordine quadrato al centro della superficie, e questa regolarità e schematizzazione vuole ingabbiare l’energia del punto rinato da se stesso, in un circuito misterioso quanto vivo – la vita, dal punto ‘continuo’ scritto e riscritto, da quell’apparizione, è incanalata in un’azione ‘variabile’ di carica energetica che si cerca e si ricerca attraverso la pittura chiamata a formarsi e a riformarsi –; qui già sentiamo il punto di punti chiedere a Biggi il recupero vivo della complessità del colore all’interno di una logica libera quanto esplosiva, generativa, diremmo: germinativa.
Torniamo al punto bianco, scritto in linee su fondo nero: esso compare e ricompare, e il tocco è tanto breve, padrone di un solo attimo, quanto irriducibile, dilatato in altri punti di sé in un tempo autonomo. Il pittore non solo pone un tutto – il punto – in un istante – in un irriducibile tempo, in un irriducibile intero – ma questo istante è dilatato nel tempo, in una pausa di tempo che si stratifica, e dilaga fermo; e questo continuo rifornirsi di se stesso – del tempo fermo di tempo – crea una condizione di mobilità mentale dell’opera, e non più un murarsi vivo dell’opera nella pittura che la descrive; in Biggi, dal ‘62, la pittura è viva perché nasce nel mentale e abita la tela così brevemente – irriducibilmente – da esistere nel mentale prima che sulla tela, da esistere nel mentale nella tela che non cattura la pittura. La pittura di Biggi quindi, si poggia sulla superficie – bianco su nero – e fa, della sua successione scrittoria di punti, ‘istantaneamente’, una continuità, e non appunto un’oggettivazione di punti successivi, distinti, slegati l’uno dall’altro. Il punto, scritto da sinistra a destra e dall’alto in basso, con un movimento semplice di accapo, nel solo tocco che gli dà la vita – dilatato negli altri propri tempi di altri punti –, precede l’immagine, di un qualsiasi dipinto e del mondo, e quindi scava in se stesso un’energia tridimensionale trasmettendo la sua voce dalla mente di chi lo coglie – che sia spettatore ormai slegato dal dipinto di punti e immerso nel mondo, oppure guardando il dipinto di punti già nello spazio del mondo, o anche l’artista stesso che dovrà ascoltare il dettato energetico che dal punto lo riporterà alla formazione dell’apparenza delle cose.
È il punto a guardare Biggi – allo stesso modo guarda noi spettatori – imponendogli – il punto a Biggi – la sua intelligenza, liberante. Ancora meglio: il punto di Biggi è così rapido – perché privo della gabbia dell’immagine, perché precede l’immagine – che è lui a guardare per primo, a osservare il suo creatore; il pittore non fa in tempo a osservare il suo punto – che appunto non è suo; il punto appartiene al punto – ed egli osserva l’osservazione del punto verso di lui, e così egli impara dal punto, impara a capire le sue volontà, i suoi destini, impara a ricostruire la pittura da quell’incontro. E la pittura ripartita dal punto di Biggi ha forza universale e definitiva.

Gastone Biggi, Continuo Spaziale, 1963, Pittura Morgan’s su tela, 45 x 100 cm

Biggi non ha bisogno e non vuole una pittura seducente, dalla perfetta finitura, come quella a cui siamo abituati nel Novecento e nei secoli passati, da Piet Mondrian a Edward Hopper, da Mark Rothko a Francis Bacon, a Sean Scully e Stanley Whitney, o Raffaello e Michelangelo, per i quali la sontuosità senza errori della pittura è una caratteristica fondamentale per il funzionamento dell’opera. Questo aspetto dà alla pittura un obbiettivo che la oggettivizza nello spazio reale, ossia la mette tra le altre cose del reale, la rende tangibile, e la dirige nel proprio punto solitario; il significato e lo scopo dell’opera è legato a questa fissità nel mondo reale – per esempio il dipinto di Mondrian è, per l’uomo, il vertice della natura; un dipinto di Scully tiene insieme, astrattamente e universalmente, le relazioni dello stare al mondo. Siamo abituati a un’opera dipinta – ma anche di un’opera d’arte tout court – che sta tra le cose in quanto cosa, e da queste si distingue e tra queste si ordina. Marcel Duchamp con l’arte concettuale dà vita a un oggetto che vuole sfuggire il suo essere oggetto ma alla fine è sempre un ‘oggetto sfuggente’ che resta oggetto tra gli oggetti. Paradossalmente l’arte concettuale vuole sfuggire la seduzione della materia distraente della pittura, ma non fa, una volta liberatasi da questa, che ribadire ancora un luogo tra i luoghi – e siamo certamente più vicini all’idea di punto di Biggi, ma appunto il punto di Biggi non è un’idea mentre l’arte concettuale sta sempre nel luogo dell’idea. Il luogo concettuale si svuota, si teorizza, ma resta spazio vuoto tra le cose, e quindi è ‘cosa’ anch’esso – ed è reale tra i reali. Per cui l’apparenza dell’idea nell’opera concettuale è sontuosa quanto la sontuosità della materia pittorica. Sono parenti dell’arte concettuale: l’arte minimale, l’arte povera, l’installazione con la performance insieme al video. La Transavanguardia da questo punto di vista ritorna alla pittura, e alla sua sontuosità, istoriando il non luogo concettuale, lo spazio tra gli spazi, che è pur sempre uno spazio, anche se fermo immobile; si evince che la sontuosità pittorica della Transavanguardia non consiste nella materia pittorica – che resta veicolo di qualcos’altro – ma nella descrizione figurativa di una condizione atemporale che divide le cose, ma che è pur sempre ‘cosa fissa’, cioè punto singolo di un’idea.
C’è una differenza tra Caravaggio e Velasquez: il secondo possiede una pittura sontuosa che usa i colori come ombre senza confini, confini che si perdono e in questo modo trasmettono l’immagine; il primo ha una pittura che punta maggiormente alla scena, che serve la cattura del famoso istante drammatico che cristallizza ed eternizza l’attimo. Caravaggio è più vicino alla Transavanguardia di quanto si possa pensare. Velasquez ha il suo successore ideale in Francis Bacon, che trasforma il segno brumoso in un segno nitido e definitivo come se apparisse proprio da quella bruma e da lì si definisse per catturare l’esperienza estrema, mortale, del reale.
Fin qui è lampante il grado della sontuosità della pittura intesa come un’orologeria millimetrica di perfezione esecutiva. Biggi sente il bisogno radicale di sfuggire da quella fissità, o meglio di indagarla e sfruttarla per trovarne una natura diversa, opposta: dal luogo che è punto di un’idea, al punto continuo di se stesso che è ignoto produttore di idee. Il punto di Biggi produce idee, e lo fa in un’incontrollata energia che Biggi mette in atto nel suo stadio primario e primordiale, che egli non controlla e non definisce. Biggi mette in atto un’opera d’arte che è un dipinto che non ha alcuna definizione pregressa, ossia che non dipende da una definizione che la genera, ma anzi che viene da una pratica di elaborazione fisica del segno verso il punto in una liberazione naturale di linguaggio. È la pratica a suggerire a Biggi il punto, egli segue la linea e i segni fino al punto, e questo è un esercizio fisico e non cogitante, ma profondamente legato alla mente poiché liberante, liberante della materia fino al punto, del luogo – del punto – che scompare nei suoi luoghi – dei punti –, così il primo punto posto sulla superficie non è mai il primo, ma è già il punto dei se stessi punti, innumerevoli e non numerabili – innumerabili – unificando il luogo in luoghi, allungando il luogo i allungamenti di luoghi, in una ‘continuità’ di spazi che esistono attraverso il reale e lo precedono.
Per Biggi la pittura è un momento della mente che si riabitua a se stessa, e la sua opera pittorica – in particolate i ‘continui’ – è un esercizio liberante di questa, una pulitura, un riprincipiare dell’armonia universale, cha sta ovunque e in ogni cosa. La pittura è per Biggi meravigliosa perché capace di connettersi e di farsi abitare da una materia mentale che riconosce un’esigenza mentale. Biggi non dipinge con la pittura, ma usa la pittura per la mente, e la mente abita e guida l’armonia della sua pittura che quindi non è e non sarà mai congelata in un’idea, ma produrrà possibili idee come armonie della mente.
Quindi la sua pittura sta sulla tela come ogni pittura, ma essa non ha bisogno di proteggersi in una purificazione espressiva artificiale di ricerca di perfezione esecutiva, poiché l’armonia è la sorgente da cui essa emerge. Ora questa emersione è ottimale, propulsiva, mai caotica, equilibrata in un riposo del tempo che si dilata quieto, che ‘continua’ appunto, e può – qui suppongo – dare luogo a delle disarmonie esecutive – se l’operare dell’artista vive e ha bisogno di un’armonia che lo guidi o che lo accompagni costante e continua, questa armonia può non essere sempre a fuoco e spezzarsi (non parliamo di trance per carità, ma di un equilibrato continuo operare), allora l’opera non offrirà in varie zone quel tutto continuo, quell’intatta parte continua, e l’artista dovrà distruggere l’opera, o ridipingerla, mai correggerla. Sappiamo che Biggi ha distrutto duemila dipinti e che ne rimangono quattromila, questo è quantomeno significativo. La pittura di Biggi non ha bisogno di compiacersi, di specchiarsi per resistere al tempo, essa è fiore del tempo. La pittura di Biggi è fatta da un’armonia della mente che la colma e la completa, che esiste e si relaziona fuori dal dipinto, facendo di esso un passaggio continuo, un istante continuo che riconnette una mente a una mente. La pittura di Biggi perde ogni condizionamento di muro e di superficie che chiude il passaggio e fa rimbalzare indietro – succede allo spettatore che guarda e riceve il ribalzo del suo sguardo –, e diventa un filtro – continuo – che collega una mente che sta di qua – prima del dipinto – a una mente che sta di là – dopo il dipinto, e questa mente è la stessa in due tempi dello stesso osservatore, ma anche allo stesso modo del pittore e di un altro osservatore, e anche di un osservatore con un altro osservatore: è questo che accade in un quadro di Biggi, che la mente perde l’appartenenza e parla indistintamente nel singolo e in una collettività.

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