23 agosto 2021

La giovane pittura italiana a Hong Kong: intervista a Michela Sena e Giuliana Benassi

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Alla Tang Contemporary Art di Hong Kong, una mostra presenta la pittura emergente italiana, in particolare romana, rivelandola come una grande fonte d’ispirazione e un fertile territorio di ricerca

Andrea Martinucci, 2019. Acrylic, silty earth, pencil and steel on canvas. 200x200x3,5cm. ©Andrea Martinucci. Photography by Perotti Studio.

Fino al 18 settembre nella sede di Hong Kong di Tang Contemporary Art è in corso la collettiva “INEFFABLE WORLDS” che, ponendo l’accento sul linguaggio pittorico, raccoglie oltre quindici opere di sei artisti italiani: Giulia Dall’Olio, Marco Eusepi, Alessandro Giannì, Luca Grimaldi, Marta Mancini, Andrea Martinucci. Si tratta di un gruppo di pittori che, proprio nel fare pittorico, affermano un atteggiamento di radicalità. Nella pittura hanno riportato la loro reazione a un momento storico caratterizzato da instabilità e cambiamenti repentini come l’attuale al tempo della epidemia di Covid, lasciando che sia lo spazio della tela a far scorgere scenari nuovi.

Andrea Martinucci, 2019. Acrylic, pencil and neon on canvas. 300x200x3,5cm. ©Andrea Martinucci. Photography by Bruno Bani.

Ne parliamo con le due curatrici del progetto, Michela Sena e Giuliana Benassi.

Michela Sena, laureata a Roma in storia dell’arte, si è trasferita poco dopo in Cina per studiare il cinese alla Shanghai Foreing Studies University. A Shanghai lavora a fianco del critico Gu Zhenqing nella redazione di Visual Production, uno dei primi magazine di arte contemporanea in Cina. Si è poi stabilita a Pechino, chiamata a lavorare dalla galleria coreana Arario Gallery. Non ho più abbandonato il mondo delle gallerie. È direttrice di galleria per molti anni a Pechino e, negli ultimi due anni, direttrice di Tang Contemporary Art a Bangkok. È da poco rientrata stabilmente in Italia e oggi è Europe Representative di Tang Contemporary Art e South East Asian art specialist.

La “nostra” Giuliana Benassi non ha bisogno di molte presentazioni sulle nostre pagine. Dopo la laurea in Storia dell’arte conseguita presso l’Università di Pisa, si trasferisce a Roma nel 2010, dove attualmente vive e lavora come curatrice indipendente. Qui co-fonda nel 2014 il progetto There Is No Place Like Home. Insegna Storia dell’Arte Contemporanea all’Istituto Pantheon di Roma/Milano e presso lo IED di Firenze “Curatorial Practice”. Dal 2019 sono Art Advisor presso l’American Academy in Rome.

Marta Mancini, Untitled August, 2018, acrylic on canvas, 180×140 cm

Come è nato il progetto espositivo?

MS: «A febbraio 2020 si era aperta una mostra curata da me a Bangkok e all’opening l’insolita presenza di molti amici cinesi mi turbò molto: viaggiavano non per piacere ma per scappare dall’ondata di Covid che imperversava in Cina. I loro racconti erano allarmanti, mi parlavano di amici e parenti morti. Pochi giorni dopo mi spostai a New York per l’Armory Show, ma nell`arco di due settimane il Covid esplose anche in occidente. Riuscii a prendere l’ultimo volo per l`Italia che, nel frattempo, era passata dalla condizione di totale apertura a un radicale e severo lockdown, e non potei fare altro che fermarmi a Roma. “Ineffable Worlds” è nata così, frutto di coincidenze, meravigliosi quanto inaspettati nuovi incontri, come quello con Giuliana Benassi, è proprio grazie al suo prezioso contributo, alla sua serietà e tenacia, al suo rigore professionale, che questo progetto ha preso corpo. È il frutto di una pausa forzata trasformatasi presto in pausa di riflessione. Mesi contemplativi e occasione per fare di nuovo il punto su una situazione che avevo abbandonato 20 anni fa. Dall’estero l’osservatorio sull’arte Italiana è offerto dalle biennali internazionali e dalle grandi mostre istituzionali. È difficile perciò avere il polso di cosa accade fra le generazioni più giovani. Se c’era quindi una grande opportunità nei mesi di pausa a Roma, era proprio quella di avere un nuovo accesso agli studi dei giovani artisti, quelli nati fra gli anni ’80 e ’90,  riprendere le fila di un discorso sospeso quando ero io stessa giovane come loro. Un discorso seppure mai abbandonato, piuttosto messo in pausa. Come si potrebbe abbandonare il contesto artistico dove ci si è formati? Questa mostra, per me, non è perciò il frutto di una ricerca su un nuovo contesto. Ha un significato ulteriore. È piuttosto una riconnessione con una realtà lasciata in sospeso. Questo progetto rappresenta anche il tentativo di intervenire sul contesto locale, contribuendo, seppur minimamente, con una qualche ricchezza che ho potuto raccogliere altrove negli anni. In senso inverso, presentando la mostra a una platea lontana, spero di ripagare con l’arte italiana quella stessa platea che generosamente ne riconosce l`assoluto e intrinseco valore».

Marta Mancini, Untitled September, 2018, acrylic on canvas, 180×140 cm

GB: «Il progetto espositivo è nato dal nostro incontro. A Roma, in inverno, durante il secondo lockdown, abbiamo avuto delle occasioni di dialogo e di confronto. Michela Sena è giunta a Roma, sua città natale, ed è qui che è rimasta bloccata dopo vent’anni di vita tra la Cina, la Thailandia e continui viaggi in USA. Il suo è uno sguardo internazionale di conoscenza dell’arte e del sistema dell’arte orientale e americano, coronato da una padronanza delle lingue  e dei linguaggi artistici relativi ai vari scenari. Questo suo particolare punto di vista, per così dire, dall’alto ha permesso un approccio di ricerca molto libero e mosso da coordinate esterne alle dinamiche prettamente locali. Insieme, abbiamo condotto una ricerca di visite in studio degli artisti che seguo da anni in Italia, soffermandoci principalmente sui pittori. Da una prima selezione di opere che, secondo la nostra visione, rappresentano un ventaglio di linguaggi forti e dotati di originalità e capacità di affacciarsi allo sguardo di un pubblico nuovo, orientale, abbiamo costruito il primo progetto espositivo per la Tang Contemporary Art. Causa forza maggiore, abbiamo anche studiato nel dettaglio il progetto, facendolo combaciare con le dinamiche più pragmatiche legate al trasporto delle opere e alla capacità allestitiva degli spazi della galleria di Hong Kong».

Luca Grimaldi, Airport, 2019, oil on canvas, 280×300 cm

Tu Michela descrivi Roma come la quintessenza dell’impenetrabilità e le gallerie private d’arte contemporanea romane migliori come entità nascoste, non in cerca di pubblico, ma “da scovare letteralmente”. Ci spieghi meglio questa tua esperienza e questo tuo punto di vista?

MS: «Esistono città, New York per esempio, che proprio come i newyorkesi, sono città “estroverse”, e sul piano urbanistico si sono sviluppate nella direzione della comunità. A New York si sono formati negli anni diversi distretti artistici dove le gallerie, raggruppate vicino ai musei, si rendono ben visibili, accessibili a tutti. In un solo palazzo se ne stabiliscono varie, e le inaugurazioni si organizzano in giorni comuni per massimizzare l’affluenza di pubblico. In una parola “si fa rete”, c’è scambio, fluidità, e si cerca sostegno nella collaborazione. Ma questo non avviene solo in occidente, anche Singapore e Pechino sono città che potremmo definire “estroverse” con dinamiche simili, distretti dedicati esclusivamente a gallerie, facilità di accesso. Sono tutte città dove il concetto di “comunità” ha un peso specifico. La natura di Roma va invece molto oltre il dato urbanistico. Roma è una città complessa, difficile da interpretare: privilegiata ma anche paralizzata dalla sua stessa bellezza, che naturalmente significa storia, patrimonio, responsabilità culturale e sacralità. “Le bellezze di Roma” che sono certamente note a tutti, anche a chi a Roma non c’è mai stato, non dicono della natura di Roma. Per quanto la città abbia un approccio apparentemente aperto rispetto a chi arriva a visitarla, Roma è in realtà molto più impenetrabile di quanto si riesca a percepire inizialmente.

Così sono i romani, la quintessenza di Roma è quasi inaccessibile, le migliori gallerie d`arte a Roma non sono alla ricerca di pubblico, ma al contrario devono essere cercate. Non esistono distretti dedicati alle gallerie, facilità di comunicazione, non c’è la percezione di un circuito che renda la scena artistica locale accessibile e, soprattutto, identificabile. Non riuscirei neanche a immaginarmi una Roma organizzata e funzionale. Il concetto stesso di praticità è inconciliabile con il fascino racchiuso proprio nel mistero e nell’ambiguità di Roma e delle sue dinamiche private. In questo contesto, anche avere accesso allo studio di un artista vuol dire cimentarsi in un’esperienza ogni volta unica. Per questo motivo, è più difficile avere uno sguardo d’insieme della scena artistica romana».

Luca Grimaldi, Gradient, 2020, oil on canvas, 100×100 cm

Il fil rouge del vostro progetto è la pittura contemporanea. Come mai avete scelto questo linguaggio, da molti addetti ai lavori (ad avviso dello scrivente, stoltamente) negletto, considerato ormai morto? In cosa consiste l’attualità della pittura contemporanea?

MS: «Il ritorno alla pittura è un evento che in modo trasversale si manifesta fra le nuove generazioni di artisti di tutto il mondo. È interessante anche soltanto osservare come sia un fenomeno globale e, allo stesso tempo, spontaneo. Già la Whitney Biennale del 2017 ci aveva preannunciato un ritorno alla pittura e alla figurazione, preludendo all’esplosione sulla scena artistica internazionale di un gruppo di giovani artisti che, nel giro di due anni, si sarebbero imposti prepotentemente con la loro carica dirompente e provocatoria: Doron Lamberg, Jonathan Lyndon Chase, Chloe Wise, Salman Toor, Robin Francesca Williams, per citarne solo alcuni. Questo movimento di neo-figurativismo prende spesso la direzione di esplicito impegno sociale e di arte di denuncia. Si pensi, per esempio, all’esplicitazione di tematiche in supporto ai movimenti LGTB, come nei lavori della filippina Marla Bendini. In linea con i loro coetanei, è la pittura dei singaporegni Alvin Ong e Faris Heizer o dei cinesi Ma Ke e Qin Qi, precursori antesignani del ritorno al figurativo. “Ineffable Worlds” presenta una piccola selezione di quella che potrebbe essere la risposta Italiana a questo movimento. C’è un dato che, a mio avviso, emerge su tutti, se si considera la simultaneità in diverse aree di questo ritorno alla pittura. Ed è una riflessione che riguarda piuttosto la sfera della critica d’arte. Questo fenomeno, così generalizzato, ci ammonisce sulla necessità di leggere l’arte in chiave esclusivamente generazionale, e non più anche territoriale. Nel nostro mondo, post globalizzato, anche i fenomeni artistici si sviluppano coralmente eppure spontaneamente, in modo non programmatico, non teorizzato. E questo avviene perchè le premesse da cui muovono fanno parte di un unico grande contesto, di un universo, non più fatto di centro e periferia ma, come è il mondo post-globale, fatto da un insieme di isole, ognuna della quale è un centro dotato della stessa forza centripeta».

GB: «“Faccio pitture. Non installazioni, quella roba da americani”. Il virgolettato è di Jannis Kounellis. Si tratta di una citazione orale che riporto a memoria, avendo avuto la fortuna di incontrare l’artista e ascoltarlo nella sua dimensione di intellettuale e, appunto, di “pittore”. Con sorpresa ho poi confermato l’importanza di questo pensiero in occasione dell’omelia dei suoi funerali presso la Chiesa degli artisti di Roma, durante la quale hanno preso voce vari suoi compagni di strada, tra cui Bruno Corà che non ha mancato di definirlo “pittore”. Questo incipit corrisponde grossomodo al mio pensiero sulla pittura come grande madre dell’arte, considerandola innanzitutto come un atteggiamento dello sguardo e della mente sul mondo, un meccanismo di costruzione magica e visionaria di immagini nuove, un “rapporto sessuale” tra l’artista e lo spazio, che sia la tela o quello fisico. Venendo alla mostra “Ineffable worlds”, si è voluto dare enfasi alla pittura in quanto linguaggio che affida al processo artistico quella creazione “ex-novo” di rapporto di immediatezza tra l’immaterialità del pensiero e la materialità della superficie pittorica. Il tema della traduzione è stato un elemento che ha sollevato non poche riflessioni: la traduzione infatti ha accompagnato il pensiero di costruzione della mostra, a partire dal titolo: traduzione dall’italiano all’inglese, dall’inglese al cinese. La perdita delle tracce di significato in termini linguistici ha rafforzato però la presenza della pittura come linguaggio dotato di una immediatezza in cui gli elementi “intraducibili” sono racchiusi nell’opera denotando quell’aspetto di ineffabilità che solo l’opera d’arte può trattenere. Sulla morte della pittura? Non credo onestamente in questo tipo di finitudine. Tuttavia credo che sia  un linguaggio bistrattato da una certa critica contemporanea che spesso ha avuto l’esigenza di sottolineare la sua fine o la sua redenzione. Attualmente, almeno in Italia, l’attenzione sulla pittura sembra tra l’altro essere tornata con una certa preponderanza: penso, ad esempio, alla mostra milanese “Painting is back” o alla presenza costante di pittura nelle fiere internazionali degli ultimi anni. Sicuramente rappresenta anche un linguaggio caro al mercato dell’arte, che spesso lo sostiene poiché dotato di una certa stabilità!? Tornando alle ragioni che hanno spinto la scelta della pittura per la mostra ad Hong Kong, essa rappresenta simbolicamente l’intento della mostra, cioè quello di presentare il lavoro di un gruppo di artisti italiani che proprio nel fare pittorico – e qui ritorniamo al discorso della considerazione della pittura nella scena contemporanea italiana – affermano un atteggiamento di radicalità. Nella pittura hanno riportato la loro reazione a un momento storico caratterizzato da instabilità e cambiamenti repentini, lasciando che sia lo spazio della tela a far scorgere scenari nuovi. Nei loro studi solitari o condivisi, a tu per tu con la tela, hanno lavorato alle opere mentre attorno l’artista visivo, almeno in Italia, si rendeva conto che non esisteva come figura sociale riconosciuta (ma questa è ancora un’altra storia). Non parlerei proprio di pittura contemporanea, piuttosto di pittura che vive nel contemporaneo, inglobando anche le istanze legate al mondo della tecnologia (come le opere di Giannì e Martinucci) oppure trovando un forte legame con la tradizione come Eusepi o indagando il gesto pittorico nella suo processo dotato di complessità come Mancini o nella riflessione sul mondo antropizzato come Dall’Olio, o negli oggetti globalizzati di Grimaldi, che invadono anche lo spazio in veste installativa».

Alessandro Giannì, Due to the image, 2021, oil on canvas, 250 x 200 cm, Ph Giorgio Benni

Cosa vi colpisce di più della ricerca pittorica emergente a Roma? Tenuto conto delle caratteristiche distintive dei singoli autori, pensate che tra di loro ci sia un trait d’union? In caso affermativo, quale?

MS: «I giovani artisti romani stanno rispondendo, in modo più o meno consapevole, al disgregarsi di un sistema sociale con le implicazioni storico-culturali che questo comporta. La loro naturale reazione è quella di ricorrere alla pittura come mezzo artistico più spontaneo, in grado di restituire all`artista l’immediatezza ante litteram di un’espressività non iper-concettualizzata. La pittura permette loro di raggiungere il massimo dell’intensità; l’energia dell’opera sgorga come un flusso ininterrotto, scaldandone la temperatura. Il rigore dell’imperante “parsimonia estetica” viene superato con naturalezza; scardinato l’assioma “contemporaneo=concettuale”, recuperano l’elemento della suggestione e finalmente la parola “bello” acquista nuovo senso. Ciò che li accomuna perciò non è da ricercarsi in consonanze stilistiche, piuttosto nel gesto libero, nella spavalderia e naturalezza con cui recuperano un linguaggio negletto per anni, e lo fanno loro restituendogli freschezza e attualità.

GB: Più che un trait d’union formale, esiste un trait d’union del processo artistico che distingue i pittori nel modus operandi di trattare la ricerca come esigenza del contemporaneo, libera da certi schemi precostituiti. Se negli ultimi anni si è registrata la necessità di giustificare la presenza della pittura come un ritorno o una sua rinascita, questi artisti nella pittura sembrano costruire un baluardo di forza al di là di preconcetti. Dunque della ricerca pittorica emergente colpisce questa energia incondizionata che crea senza ulteriori necessità. Per questo ci è sembrato un atto fondamentale anche la questione del viaggio delle opere: impossibilitati gli artisti al viaggio in Oriente, sono state le opere a viaggiare e a prendere posto ad Hong Kong, lasciando totalmente all’opera pittorica il diritto di “parlare” di se stessa».

Con quale criterio avete selezionato gli artisti per questo progetto?

MS/GB: «Gli artisti sono stati selezionati tenendo conto dell’ampia generazione dei nati tra gli anni Ottanta/Novanta. Roma è stato il territorio che maggiormente si è indagato. La selezione ha voluto rispondere a un’esigenza espositiva di varietà di linguaggio, andando a individuare le ricerche a nostro avviso più germinative e dotate di una loro coerenza interna in termini di evoluzione di ricerca».

Alessandro Giannì, untitled, 2018, oil on canvas, 90 x 70 cm, Ph Giorgio Benni

Come si articola il percorso espositivo che avete curato?

MS/GB: «Il percorso espositivo si articola principalmente pensando allo spazio della galleria di Hong Kong. È stato prima di tutto immaginato. Ricordiamo che le opere hanno viaggiato in luogo degli artisti, cosa che ha permesso la sperimentazione di un lavoro curatoriale a distanza, i cui risultati sono stati corrisposti da un percorso idealmente variegato in cui le opere si sono collocate non per raggruppamenti dei singoli artisti, ma in un continuum alternato di opere degli artisti coinvolti».

Giulia dall’Olio, 19][106 d, 2018, charcoal and pastel on paper, 84×59 cm
Prevedete già prossimi step di mostre di artisti emergenti italiani all’estero? Quali?

MS/GB: «La mostra “Ineffable worlds” è la prima mostra pensata per Tang Contemporary Art e segna l’inizio di una progettualità tutta nuova e da indagare passo dopo passo, con l’intento di aprire future collaborazioni e lanciando nuovi progetti, anche oltre la pittura. Frutto di un’alchimia ben riuscita: il nostro approccio curatoriale, la comune etica professionale e, soprattutto, l’apertura con cui ci siamo rapportate alle opere, la mostra ha riscosso già un incredibile successo fra il pubblico di Tang Contemporary Art. La galleria, essendo una delle più influenti realtà asiatiche, ha un’incredibile esposizione mediatica e, anche in questi tempi in cui i viaggi sono limitati all’essenziale, raggiunge milioni di fruitori d’arte fra la Cina continentale, tutto il continente asiatico e gli Stati Uniti. Realizzando risultati che sarebbero impensabili se rapportati alle realtà europee. Questa è, perciò, una mostra nata sotto una buona stella, un progetto che, se anche partorito dall’esigenza di sintetizzare il meglio che le circostanze attuali offrono, ha portato un successo inaspettato anche per noi. Ci sentiamo di poter dire quindi che è solo l`inizio di una serie di progetti che si articoleranno con estrema libertà in Italia e all’estero. Mentre ci auguriamo comunque di tornare presto a viaggiare fisicamente, senza il rischio di nuove restrizioni».

Giulia Dall’Olio, 19][167 d, 2019, charcoal, pastel and acrylic on paper, 195×195 cm
Marco Eusepi_Untitled (trees and sky), 2021, Oil on canvas, 58,5X67cm
Marco Eusepi_Untitled (trees), 2021, Acrylics on canvas, 214X300cm

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