03 giugno 2025

Trump licenzia sui social Kim Sajet, direttrice della National Portrait Gallery

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Donald Trump annuncia sui social il licenziamento di Kim Sajet dalla National Portrait Gallery ma non ha il potere per farlo: l’ennesimo scontro tra la sua amministrazione, la cultura e la realtà

L’annuncio è arrivato su un social network: «È una persona fortemente faziosa e una convinta sostenitrice del DEI – Diversity, Equity, and Inclusion (I programmi di Diversità, Equità e Inclusione che hanno caratterizzato, tra l’altro, la gestione delle istituzioni museali negli Stat Uniti, ndr), una posizione totalmente inappropriata per il suo ruolo». Con queste parole, Donald Trump ha comunicato su Truth il “licenziamento” di Kim Sajet, direttrice della National Portrait Gallery di Washington dal 2013, prima donna in questo ruolo.

Ed è anche la prima volta, nella storia della prestigiosa istituzione afferente allo Smithsonian, che la rimozione di un direttore museale avviene con un carico di tensione politica così esplicito, anche se perfettamente in linea con il ritorno trumpiano alla Casa Bianca e con la sua campagna contro quella viene definita «Ideologia anti-americana». Nonostante il roboante annuncio, Trump non può licenziare direttamente una figura del genere: il gesto sembra rivelare un impulso propagandistico più che precedere un atto esecutivo, confermando lo scollamento tra la retorica trumpiana, i limiti del potere presidenziale e la realtà delle cose.

Kim Sajet, Photo by Grace Roselli

Figura cosmopolita, Kim Sajet ha portato avanti per oltre un decennio una visione multiforme della cultura americana. Nata in Nigeria, cresciuta in Australia e cittadina dei Paesi Bassi, è arrivata negli Stati Uniti nel 1997 con una formazione in storia dell’arte, studi museali, business administration e leadership culturale, affinata tra Melbourne, Bryn Mawr e Harvard. Nel suo incarico alla National Portrait Gallery, ha trasformato la collezione in uno spazio critico e partecipativo, partendo proprio dal tema cruciale del ritratto: chi racconta e rappresenta la storia degli Stati Uniti? E per quale pubblico?

Durante la sua direzione, la Galleria si è dunque distinta per l’equilibrio tra rigore storico e sensibilità contemporanea. Le esposizioni hanno incluso media tradizionali come pittura e scultura, ma anche video, performance, podcast e poesia, aprendo il museo a un pubblico più ampio e transgenerazionale. Con la serie PORTRAITS, Sajet ha dato voce a artisti, storici e pensatori impegnati a riflettere sull’identità americana come costruzione dinamica e pluralista.

È forse proprio questa visione ad aver segnato il suo destino negli States odierni. Dopo l’ordine esecutivo firmato da Trump lo scorso marzo contro i programmi DEI e le narrazioni «Divisive» nei musei pubblici, Sajet sembra essere diventata un bersaglio simbolico. Nello stesso provvedimento, erano stati criticati anche altri istituti dello Smithsonian, come il National Museum of African American History and Culture. In uno di questi ordini, Trump ha incaricato il vicepresidente JD Vance, membro del consiglio di amministrazione dello Smithsonian, di supervisionare il processo di rimozione della “ideologia woke” dai luoghi della cultura.

Eppure, sotto la guida di Sajet, la mostra permanente America’s Presidents, che include ritratti iconici da George Washington a John F. Kennedy, fino a quello dello stesso Trump, realizzato dal fotografo Matt McClain, aveva cercato una postura di imparzialità storica. Come dichiarava lei stessa al Guardian, «Non voglio che leggendo una didascalia si capisca cosa pensa il curatore: voglio che sia basata su fatti storici». Un rigore metodologico che non ha evitato le ire presidenziali, forse proprio perché è stato proprio lo sguardo storico a diventare un atto politico.

 

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Resta ora incerta la successione alla guida del museo Per il momento però sul sito della National Portrait Gallery Sajet compare ancora come direttrice. Trump infatti non ha il potere legale diretto di licenziare il direttore di un museo dello Smithsonian Institution, che è sì un ente pubblico-privato, finanziato in gran parte dal Congresso degli Stati Uniti, ma mantiene una struttura amministrativa autonoma. Le nomine dei direttori delle sue varie unità museali, come la National Portrait Gallery, sono in genere compito del Segretario dello Smithsonian, che agisce con il supporto del board. Quindi, né il Presidente degli Stati Uniti né l’Esecutivo federale possono direttamente licenziare una figura museale come Sajet.

Tuttavia, Trump può esercitare una pressione mediatica e politica per sollecitare rimozioni, soprattutto se l’obiettivo è una “epurazione ideologica” in linea con la sua agenda anti-DEI e gli ordini esecutivi, che orientano la governance degli enti federali, anche se non sempre sono legalmente vincolanti per enti autonomi come lo Smithsonian. Tra l’altro, può proporre tagli al budget federale destinato allo Smithsonian, usandolo come leva per indurre cambiamenti gestionali. Insomma sembra profilarsi un braccio di ferro tra politica e istituzioni culturali, sulla falsariga di quanto sta accadendo ad Harvard, che ha citato in giudizio l’amministrazione Trump subito dopo che il Dipartimento per la sicurezza nazionale aveva dichiarato il blocco per gli studenti stranieri a frequentare l’università.

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