-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Caleidoscopica New York: intervista al fotografo Carmelo Nicosia
Fotografia
Dieci anni di “pellegrinaggi” nella Grande Mela, dall’America del Yes We Can di Barack Obama al Make America Great Again di Donald Trump attraverso l’obiettivo di Carmelo Nicosia, considerato uno dei maggiori autori della nuova fotografia italiana, anello di congiunzione tra la tradizione socio antropologica e la ricerca nei nuovi media. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’ultimazione del suo progetto, THE KALEIDOSCOPE NY 2010/20.

Come nasce il progetto THE KALEIDOSCOPE NY 2010/20?
«Come descrivere le fotografie realizzate in dieci anni di pellegrinaggi americani? Come raccontare con la potenza delle visioni, ciò che ha mosso un uomo del Sud ad attraversare l’oceano, per essere ammaliato e ipnotizzato dal caos assordante, libero e a volte anarchico della grande Mela? La grande Mela, una gigantesca commedia dell’arte extra-europea attraversata da una moltitudine di esseri umani, che generano traiettorie di vita impensabili, a ritmi extragalattici, all’interno di una cavea metallica, circondata da acciaio nobile, coraggioso e intraprendente.
In realtà, tutto ebbe inizio a Stromboli e Stromboli è figlio dell’Etna. A Stromboli incontri il mondo; almeno il mondo che piace a me, e Iddu romba, senza mai smettere di esprimere una natura primigenia che mette a posto tutto con struggente vemenza.
Wim Wenders nel suo indimenticabile film Il cielo sopra Berlino, entra nelle mente di un uomo ferito sul ciglio della strada e l’Angelo protettivo, pronuncia sotto voce la parola Stromboli, un luogo dell’immaginario, archetipo del sogno, come NY. A Stromboli prende casa Marina Abramovich, energia nera. A Stromboli un ebreo rosso di capelli e americano di terza generazione mi dice: hei man tu devi vedere la mia città, è come salire sul vulcano, affacciarsi e precipitare senza protezione.
Etna, Stromboli, New York un triangolo improbabile, ma assolutamente coeso nei fatti. Quindi da dieci anni, New York, diviene un approdo, il circo della vita, ove tutto può accadere e dove ogni idea è degna di rispetto per la sua realizzazione. Una terapia annuale, un vaccino esistenziale atto a un buon proseguimento dell’anno per vivere e sopravvivere. A New York arrivi accarezzato dall’acqua e dalla luce, una epifania per lo sguardo, una altra faccia della luce mediterranea madre di tutte le culture.
Ho sempre amato viaggiare con la mia piccola, ma corposa famiglia per condividere in vita un sogno, la fotografia, e farmi trascinare dal flusso turistico degli itinerari consueti, rassicuranti sulla carta, incuriosito dalla normalità delle destinazioni, come in un grande stadio, tutti ai suoi posti, con una regia ben organizzata. Ma all’improvviso la normalità diviene caos, la belva ruggisce e gli attori assumono altre maschere, violente, pirandelliane e lo spazio vitale si restringe, soffocante.
È talmente eclatante e inconsueto, lo spettacolo di ciò che accade all’interno del perimetro consueto dei flussi turistici della città dove ogni anno si rinnova una processione laica, si recita un copione, ed esplodono focolai di visione imprevedibili come a mare.
Editori, fotografi, artisti, amici, mi hanno sempre criticato di avere speso troppe energie per la grande mela che Costanza la mia unica figlia chiama LEI, e questo è già un buon motivo».

Quale volto di New York hai voluto catturare?
«Il volto degli abitanti temporanei di un gigantesco Luna Park che non si ferma mai. Un gigantesco vortice ove il sorriso lascia il posto a una fisiognomica tirata, e tutto accade in una lunga strada ove albergano stazioni commerciali, culturali, zone verdi».
Qual è il valore di THE KALEIDOSCOPE NY 2010/20 all’interno del tuo percorso di ricerca?
«Mi ritengo un antropologo visuale e, come tale, sono molto interessato ai processi che regolano le società complesse, i gruppi spontanei regolati e comandati dal capitale, dal sogno americano, dalla merce che diviene oggetto di culto e di apparente improrogabile bisogno. Si dice che nel fiume Hudson ci sia la più alta concentrazione di cocaina che in altri corsi d’acqua nel mondo di altre metropoli».

Cosa rappresenta per te New York?
«Un salto nel vuoto, ma anche la speranza che realmente possa esistere un american dream, una fascinazione generazionale legata al sogno e all’utopia».
Nei tuoi svariati viaggi negli Stati Uniti, hai notato cambiamenti che ti hanno colpito sia positivamente che negativamente?
«Mi terrorizza il fenomeno del Fentanyl, un potentissimo oppioide sintetico da 50 a 100 volte più potente della morfina che produce effetti catatonici sugli individui che si congelano in pose tragiche, il corpo si contorce, moltitudini di zombie che albergano in alcune città americane.
Una sensazione acuta, da fine del mondo, un monito e tanta disperazione, evidente disperazione. Una comunità disperante che ricorda i fenomeni legati all’eroina degli anni settanta, droghe che hanno devastato generazioni di giovani, droghe che bloccavano il futuro».
Come è cambiato il tuo rapporto con New York nel tempo? È cambiato il modo in cui la percepisci e fotografi?
«La percepisco come un grande visione, uno sguardo sul mondo, un luogo che inizia a invecchiare, che deve competere con i grandi centri asiatici e che inizia a crearmi anche delle tenerezze. Seduti a Central Park, senti parlare italiano, siciliano, tutte le lingue del mondo, e i bus hanno le vecchiette con i capelli rosa».

Quali sono gli aspetti della società americana che emergono attraverso le tue fotografie di New York?
«L’undici settembre 2001 rimane per me un momento unico e violentissimo della storia del nostro pianeta; credo che quell’atto unico, la più grande performance mediatica globale, abbia trafitto il velo della leggerezza e della fiducia nel mondo libero, privo di barriere. Un assassinio protratto nel tempo, con caratteristiche cinematografiche di una violenza inaudita in tutti i suoi fotogrammi, che abbiamo reiterato migliaia e migliaia di volte. Le torri che si abbattono, rappresentano una metafora medievale, di sfondamento, di assalto ideologico e fisico al nemico, un nemico con il quale si conviveva. Dall’alto arriva la potenza distruttiva, una angolazione imprevista, fuori dalle regole. Si è accesa una spia sulla percezione del mondo, dei rapporti tra esseri umani, la tolleranza, la voglia di una comunità inter-etnica.
Credo che questo evento, insieme al Covid del 2020, abbia generato un flusso cognitivo diverso, la terra ha leggermente alterato il suo asse morale etico e filosofico».

Cosa ti colpisce dell’immaginario “trumpiano”?
«Trump ha due aspetti: quello dell’apparire e quello del fare, e credo che abbia molto interesse ad apparire un super eroe. Un super ego che deve esondare continuamente. Ma ha una grande popolarità anche tra i ceti meno abbienti, le comunità di colore, alcuni intellettuali che ne apprezzano il suo pragmatismo, e sarebbe interessante analizzare i percorsi delle comunità americane che lo hanno eletto, le profonde motivazioni con atteggiamenti meno intellettualistici o elitari. Ora stiamo a guardare il governo quotidiano del Paese, la risoluzione dei problemi quotidiani della gente».
Cos’è la fotografia per te?
«Con la fotografia si è raccontata la storia del mondo; dalla fondazione della agenzia Magnum nel 1947, sino agli anni novanta del secolo scorso l’editoria generava informazione, politica, cultura. Oggi nell’era digitale ogni essere umano è divenuto una antenna autonoma di informazioni visive. Il fotografo contemporaneo ha mutato ruoli e funzioni, e deve combattere ogni giorno con una inflazione patologica di immagini che girano incontrollate nell’etere.
A livello fisiologico, credo che si possa affermare che in nostro apparto percettivo non sia più in grado di assorbire questo esubero di visioni, e il risultato è un grande simbolico bianco, un nulla assoluto che si erge alla stregua di possibilità nuove, e il fotografo contemporaneo si deve inerpicare in una montagna tecnologica densa di velocità, HI, canoni linguistici globalizzati, mancanza di attenzione al ritmo delle piccole culture territoriali, per poter competere e farsi notare».

Cosa ti spaventa della fotografia?
«Selezionare lo sguardo attraverso uno strumento ottico e conquistare una porzione di realtà apparente che ci osserva a sua volta, è una assunzione di grande responsabilità. Fotografare è un atto fortemente politico, un atto potenzialmente rivoluzionario, ma deve essere chiaro l’utilizzo del prodotto finale. Se l’obiettivo è quello di costruire opere fotografiche che scimmiottano il sistema dell’arte contemporaneo con il chiaro intento di essere vendute con dinamiche e quotazioni da fiere specializzate, cambia radicalmente l’azione storica e politica della fotografia. La parete espositiva diviene lo scenario d’azione dell’opera e il fine è meramente estetico. Diversa è la costruzione di un progetto complesso che vuole competere con il mondo politico e filosofico e che ha l’ambizione di incidere nell’immaginario collettivo, attraverso la realizzazione di format (libri, mostre, audiovisioni, performances, etc.) che possano in qualche modo trovare un doloroso spazio per farsi sentire. Il mondo dei social ha notevolmente ridotto gli spazi di attenzione e approfondimento delle idee, ma questa è una battaglia intrigante, poiché molti artisti scrittori e studiosi in generale, stanno riflettendo su forme d’arte che diventano sempre più opere comunicazionali».
Qual è oggi la responsabilità di un artista che si esprime attraverso la fotografia?
«Nulla. Mi esalta ancora studiare le possibilità e potenzialità di uno strumento ottico che gioca con la luce e che deve fare i conti con i cambiamenti del pensiero e della storia. Sono ancora affascinato dalle infinite narrazioni che si possono inventare ricordando che un po’ la fotografia estrae l’anima più profonda della realtà».

Che cosa pensi del rapporto tra la fotografia contemporanea e la politica?
«Tutto è politica, anche se abbiamo perso il senso di questa riflessione. Ho lavorato a un progetto di Infinito con Pistoletto e rivendicava continuamente l’azione politica dell’arte rispetto alla società, una società in continuo, dilagante movimento».
L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale nella società contemporanea?
«Sì, ma bisogna guardare ai giganti… uno per tutti Anselm Kiefer».
Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?
«Sì, con i tempi dell’evoluzione umana, ma sì, è sempre accaduto e accadrà sempre».
Cos’è per te oggi veramente contemporaneo e come vedi il futuro?
«Il futuro è contemporaneo».
