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L’evidenza nascosta del dramma: Palestina e Libano nelle fotografie di Lorenzo Tugnoli
Fotografia
Fa che sia un racconto, visitabile all’ex convento di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, fino al 2 giugno 2025, è una mostra con 40 foto del fotoreporter Lorenzo Tugnoli sul recente conflitto perpetrato da Israele in Palestina e in Libano. Insieme con la curatrice Francesca Recchia, Tugnoli ha deciso di inserire anche molta documentazione, per permettere una riflessione sulla comunicazione di questa guerra, che ha causato la morte di moltissimi giornalisti.
Urgenza di far conoscere i fatti, per una necessità di giustizia: un sentimento incontenibile di fronte all’attuale situazione di Gaza e della condizione palestinese. E gli strumenti per colmare il silenzio dell’informazione e della narrazione pubblica ci sono. Una mostra per esempio. Non è proprio a portata di mano ma vale una gita a Bagnacavallo, anche perché Fa che sia un racconto, promossa dall’unione dei Comuni della Bassa Romagna, si espande in un antico convento con spazi di meraviglia che ne raccontano la storia.

Il fotografo – Premio Pulitzer nel 2019 per il Washinghton Post, unico italiano a riceverlo per un reportage dedicato alla popolazione martoriata dello Yemen – e la docente universitaria lavorano insieme da tempo: si sono conosciuti a Kabul e a breve uscirà un libro su quel soggiorno. Hanno scelto come titolo della mostra l’ultimo verso di un poesia, Se dovessi morire, fa che sia un racconto, di Refaat Alareer, poeta e intellettuale palestinese, ucciso a Gaza in un raid israeliano all’inizio del conflitto, nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023.

Hanno collaborato per una mostra che non è solo fotografica, ma offre anche una nutrita ricerca documentaria e delle testimonianze. L’obiettivo è affrontare appunto il tema della mancata informazione, l’assenza di un impegno per sapere la verità sulla condizione della Palestina e del Libano in occasione dell’escalation militare di Israele dal 2023. Hanno assunto il compito di farsi testimoni della storia.
Francesca Recchia, che si occupa principalmente della dimensione geopolitica dei processi culturali e negli ultimi anni si è concentrata in particolare sulle pratiche creative nei paesi in conflitto spiega: «Il registro primario di Fa che sia un racconto è quello della fattualità documentaria. La mostra è un invito collettivo a coltivare lo sguardo critico, a non smettere di fare domande a rimettere al centro il ruolo del testimone, a pretendere uno spazio di narrazione onesta».

La poesia ci accoglie sul pianerottolo mentre saliamo al piano dove si trova l’esposizione. Da qui vediamo anche, al termine della seconda rampa di scale, una lunga striscia nera appesa al muro con molti nomi scritti in bianco: sono i giornalisti palestinesi uccisi negli ultimi due anni. E subito sotto: una manciata di dadi dove per ogni lato c’è una parola – confini, popolo, muri genocidio, guerra, tragedia, convenzioni e molte altre. Dadi gettati senza nessun regole e rispetto come è quello che manca in questa tragedia senza sosta.

Il percorso infatti ci porta ad attraversare tante pile di carta che riempiono il corridoio dove poi si aprono le altre stanze con le foto in un bianco e nero molto marcato delle tappe in Palestina e Libano (per la sua precisa documentazione sull’esplosione nel porto di Beirut si è meritato il World Press Photo, nella categoria Spot News, nel 2021). Le pile di carta sono i documenti che riguardano la questione palestinese trovate sul sito dell’Onu, dell’Unione Europea a di altre istituzioni internazionali. «Sono lì a disposizione di tutti», aggiunge Francesca Recchia. «Perché non si va a cercare? Perché se ne scrive così poco?». Ci si può avvicinare e leggere. C’è anche una testimonianza di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, in cui spiega che si tratta di genocidio.

Ad aiutarci a capire, una sorta di mattonelle nere sul pavimento, con QR Code con dati e informazioni a seconda del tema affrontato in quello spazio, fungono da pietre d’inciampo. Sulle pareti un po’ scrostate, nella prima stanza, ci sono le 40 foto di Tugnoli, scattate dal 2023, che non lasciano dubbi sulla violenza e sulle condizioni disumane in cui si trovano a vivere questi popoli, anche quello libanese sotto attacco. «Questa è una mostra “di resistenza” che riflette su una guerra difficilissima da documentare. Una riflessione sulla comunicazione di questa guerra, un conflitto che ha visto uccisi per la prima volta anche un gran numero di giornalisti e fotografi, ammazzati proprio perché portavano avanti il loro lavoro di testimonianza. È un lavoro che affronta uno dei temi cardine del Medio Oriente: la Palestina. Ma c’è anche il Libano, di cui non vediamo praticamente nulla: la gente comune quasi ignora che ci sia stato anche lì un conflitto devastante che in tre mesi ha fatto 3mila morti».

Le prime immagini che incontriamo sono rarissime, sono di Gaza, dove la stampa non è riuscita a entrare dall’inizio del conflitto. Il fotoreporter ci è riuscito soltanto perché scortato dall’esercito israeliano. Sono scatti segreti dell’Ospedale Al-Shifa, bombardato a marzo e dove l’OMS non è potuta entrara e di cui una parte è stato occupato dall’esercito israeliano. A fianco, ci sono delle donne che piangono i loro familiari dopo un bombardamento a sud di Beirut. Questa è l’evidenza del dolore causato.

Nelle altre stanze, la potenza di queste foto ci porto dentro i mille aspetti di questo conflitto. Tra cui la vita quotidiana che non sembra possibile possa proseguire in questi luoghi distrutti. E così spiccano le foto dei bambini di Nablus che giocano con le pistole o l’abbraccio tra un padre e un figlio o i giovani che fumano il narghilè in un campo profughi di Jenin, tra le macerie di una post incursione dell’esercito di Israele. Così come un abitante di Umm al Kheir siede tra le rovine di una casa demolita dagli attacchi dell’esercito. Lo sguardo di Tugnoli non ci lascia immaginare, si “fa un racconto” di cosa vuol dire in termini di devastazione di luoghi e di vite questa guerra senza sosta. E senza giustizia.







