22 gennaio 2020

Bologna / Gallerist: DE’ FOSCHERARI

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La panoramica sulle gallerie bolognesi continua con De' Foscherari, una delle gallerie storiche di Bologna, aperta negli anni '60

de foscherari bologna
Galleria de' Foscherari. Claudio Parmiggiani, Porto, 2007

Qualche dato sulla galleria: con quanti artisti collabora e da quante persone è composto lo staff? Quanti progetti espositivi realizza, mediamente, in un anno?

«La galleria de’ Foscherari propone un offerta abbastanza ampia di opere e autori anche a causa del lungo arco di temporale durante il quale ha operato; tra questi posso citare ad esempio, Ceroli, Parmiggiani o Zorio per quanto riguarda i nomi più “storici”, ed Eva Marisaldi, Liliana Moro o Vedovamazzei, per quanto riguarda gli artisti emersi tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Abbiamo in oltre organizzato mostre di artisti più giovani tra i quali Vajiko Chachkhiani, Sophie Ko o Luigi Presicce. Accanto a questi la galleria propone anche mostre ed opere di artisti con cui ha lavorato in passato come, ad esempio, Schifano, Sartelli o Morandi. In galleria siamo in 4, ma ci affidiamo anche ad un certo numero di collaboratori esterni: allestitori, artigiani, restauratori e tecnici, senza l’aiuto dei quali sarebbe impossibile per noi operare. In media organizziamo 4 mostre l’anno presso la nostra sede».

Siete protagonisti del tessuto culturale cittadino dai primi anni Sessanta e punto di riferimento per il contemporaneo a livello nazionale e internazionale. Quali ritenete siano stati gli elementi principali che vi hanno portato a realizzare questo percorso?

«La galleria è nata in quel periodo di grandi mutamenti sociali, economici e culturali che avranno il loro culmine con la rivolta del ’68. In quei primi anni la galleria rivolse la propria attenzione ai fenomeni emergenti, con particolare attenzione riguardo alla Pop Art e all’Arte povera. In quegli stessi anni e fino all’emblematico 1989, i cataloghi della galleria furono sede di un dibattito critico filosofico che, curato da Pietro Bonfiglioli, usciva a puntate sotto il titolo di Notiziario, e che coinvolse negli anni i più vivaci critici e storici dell’arte italiani, tra i quali ricordiamo Francesco Arcangeli, Renato Barilli, Alberto Boatto, Achille Bonito Oliva, Maurizio Calvesi e Germano Celant, nonchè artisti ed intellettuali, come Piero Gilardi, Renato Guttuso o Michelangelo Pistoletto. Tutti i 65 numeri del Notiziario sono stati recentemente ripubblicati, in occasione della mostra “Galleria de’ Foscherari 1962 – 2018”, attualmente ospitata al Mambo a Bologna. La realizzazione di questa pubblicazione e stata per noi l’occasione di rileggere tutto l’ampio ed acceso dibattito e di rievocare il contesto nel quale la nostra cultura si è formata. La speranza è che il lettore possa trovare motivi di interesse per questo volume, che restituisce l’immagine di un mondo tramontato, il Novecento, ma le cui contraddizioni, sopravvissute a tale tramonto, sono più vive che mai. Oggi la critica, nell’ambito artistico e non solo, sembra essere tramontata, ma il suo esercizio rimane imprescindibile per il gallerista, poiché egli è portatore di una responsabilità nei confronti dei propri clienti ed è, dunque, tenuto ad interrogarsi sul futuro degli artisti e delle opere che propone».

Come si è modificata nel tempo l’attività della galleria de’ Foscherari?

«Negli anni , come è naturale che sia, i mutamenti sono stati enormi, si è passati dall’avanguardia, ovvero da qualcosa che per definizione si riferisce ad un numero ristretto di individui, all’arte contemporanea che seppure rappresenti una nicchia, è comunque un fenomeno di massa. Il contesto è divenuto globale, il mondo è divenuto più piccolo ed integrato, e al tempo stesso più complesso ed interconnesso. L’ambito artistico che era dominato da movimenti è divenuto babelico, con apporti da tutto il mondo ed il numero degli artisti dei collezionisti e delle gallerie è cresciuto enormemente. La galleria, come qualsiasi organismo che vive in relazione ad un ambiente, se vuole sopravvivere deve adattarsi alla mutevolezza delle condizioni del contesto ed evolversi in relazione agli stimoli esterni che riceve. In estrema sintesi possiamo dire che le gallerie sono obbligate a strutturarsi in relazione alla crescente complessità del sistema».

In base a quali criteri avete definito la rosa degli artisti che rappresentate oggi?

«L’attività della galleria, si è strutturata ed ha preso forma lungo un ampio arco temporale, come un percorso, vi sono quindi sia i criteri attraverso i quali si operano le scelte , che le possibilità che si incontrano lungo il cammino, da un lato abbiamo la volontà , dall’altro la fortuna. Ci si muove in un territorio liquido ed in continuo mutamento, occorre coltivare quella sensibilità attraverso cui ci si può relazionare alle opere ed ai propri simili ed essere disposti , se necessario, a mettere in questione i propri criteri e a rinnovare le proprie definizioni. Il percorso della galleria ha certamente una coerenza, ma è una coerenza che non deve essere intesa come qualcosa di inflessibile, preferiamo pensare alla coerenza coma ad un’armonia, ad un riflettere ad un risuonare, rispetto ad una storia, ad una sensibilità, ad una cultura che non si lasciano definire, essendo partecipi delle infinite metamorfosi della vita e del mondo».

Quali pensate siano le principali sfide che deve affrontare una galleria d’arte contemporanea oggi?

«Le sfide che le gallerie devono affrontare sono molteplici, viviamo in tempi di crisi, economica, culturale, ambientale, ma se per semplicità vogliamo individuarne una allora possiamo dire che, probabilmente, la sfida più formidabile con cui ci confrontiamo è quella al pensiero calcolante, alla complessità sempre crescente che caratterizza il mondo contemporaneo, vorrei dire “La sfida al labirinto”, appropriandomi del bellissimo titolo che Milovan Farronato ha dato al suo progetto per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2019. La sfida più formidabile è dunque forse, “quel pensare il destino” che è il compito dell’arte di ogni tempo, destino inteso non come ineluttabilità del fato ma come appartenenza, misura della libertà».

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