19 agosto 2020

Il rapporto tra collezionismo e tasse attraverso alcuni casi giurisprudenziali (III E ULTIMA PARTE)

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Il collezionista che vende le proprie opere d'arte deve pagare le tasse? E se sì, quando?

Andy Warhol, Triple Dollar Sign (1982)
Andy Warhol, Triple Dollar Sign (1982)

Sempre riguardo al tema del collezionista che vende le proprie opere acquistate nel corso degli anni è intervenuta anche la Corte di Cassazione in più di un’occasione. Un esempio è la sentenza numero n. 14101 del 1.3.2019 emessa dalla seconda sezione della Corte Suprema. La sentenza sopra richiamata è pronunciata nell’ambito di un procedimento penale che ha conosciuto una fase cautelare personale. L’indagato, infatti, è sottoposto alla misura degli arresti domiciliari per ordine del Giudice per le Indagini Preliminari, su richiesta della Procura; decisione poi confermata dal Tribunale del riesame (anche detto Tribunale delle Libertà). Impugna quindi il difensore con ricorso in Cassazione. La Cassazione accoglie il ricorso e di conseguenza annulla la misura degli arresti domiciliari.  Le questioni giuridiche oggetto del giudizio coinvolgono contestazioni di vario tipo: l’antiriciclaggio e la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Il tutto trae peraltro origine da un procedimento di collaborazione volontaria per l’emersione del “nero” detenuto all’estero, la “c.d. voluntary disclosure”.

Nel dirimere le questioni assume rilievo la distinzione tra la figura del collezionista e del mercante d’arte, con le conseguenti ricadute in tema d’imposte. Questi i fatti e le contestazioni di rilievo penale. L’indagato sarebbe stato titolare di una serie di società italiane ed estere, compreso un “trust” finalizzato all’evasione fiscale. Nell’ambito del patrimonio di cui disponeva vi erano anche opere d’arte il cui valore era valutato in € 25.944.984, che egli avrebbe dichiarato falsamente di detenere quale collezionista, negando di svolgere invece un’attività equiparabile a quella di mercante d’arte. Opere d’arte peraltro denunciate come detenute all’estero, mentre in realtà si trovavano in Italia.

La sentenza ci interessa proprio perché si occupa della distinzione tra collezionista e mercante d’arte. La Corte Suprema afferma che nel caso concreto l’indagato è in realtà un mercante d’arte che avrebbe sfruttato la rete di società a lui riconducibili per commerciare in opere e pertanto le plusvalenze realizzate con le cessioni avrebbero dovuto concorrere alla formazione del reddito imponibile. Aggiunge, inoltre, la Cassazione che «il collezionista è quel soggetto che acquista e vende opere d’arte per soddisfare un proprio interesse che, di norma, è quello di ampliare la propria collezione di oggetti d’arte animato da intenti puramente contemplativi. Al contrario, il mercante d’arte, è colui che investe professionalmente in oggetti d’arte allo scopo di trarne profitto dalla successiva vendita sul mercato».

Sul medesimo tema, la Suprema Corte, ha avuto modo di pronunciarsi anche nel 2004 con la sentenza n. 15769 del 13.8.2004. Il signor G.V. svolge due attività: una assicurativa e una di mercante d’arte, ovvero acquista opere d’arte con iniziative volte a favorire la commercializzazione delle stesse. Tralasciamo l’attività di agente assicurativo e analizziamo quella che riguarda le opere d’arte. Egli acquista almeno 167 opere d’arte, avvalendosi anche di finanziamenti da parte d’istituti bancari allo scopo di rivenderle. L’intenzione di vendere le opere d’arte viene riconosciuta dallo stesso interessato, sia nella corrispondenza intrattenuta con gli istituti bancari finanziatori, sia negli atti giudiziari da lui depositati nelle cause che ha promosso contro le banche. Egli inoltre svolge anche attività di promozione di un artista, finanziando le sue mostre internazionali e inviando opere del medesimo a critici d’arte e giornalisti specializzati.

La vicenda assume rilievo in quanto il signor G.V., in data 8.7.1997, viene dichiarato fallito dal Tribunale su istanza di un istituto bancario, mentre nessuna delle opere d’arte da lui acquistate è da lui venduta. La dichiarazione di fallimento viene impugnata dall’interessato, ma prima è confermata dal Tribunale con sentenza del 5.7.1999 e poi anche dalla Corte d’Appello con sentenza del 4.7.2000. Anche la Corte di Cassazione viene interessata dal caso e, con sentenza del 13.8.2004 n. 15769, conferma in via definitiva il dichiarato fallimento.

È pacifico in giurisprudenza che un mercante d’arte è un imprenditore commerciale e, in caso di insolvenza, è assoggettabile alla procedura fallimentare. Ciò che contraddistingue la fattispecie è che quando G.V. è stato dichiarato fallito non aveva ancora venduto una sola opera e, secondo la sua tesi, non aveva ancora dato inizio all’attività imprenditoriale. Non poteva quindi essere dichiarato fallito. Secondo i giudici, invece, la qualifica d’imprenditore si acquisisce già nel momento in cui si conducono atti preparatori di carattere imprenditoriale e quindi anche quando le attività imprenditoriali sono ancora potenziali; l’apparato organizzativo, quindi, sussiste anche in presenza di un’organizzazione personale e materiale, come dire, scarsa, ovvero fornita di pochi mezzi. In altre parole, il signor G.V. è stato qualificato quale mercante di opere d’arte (imprenditore) e dichiarato fallito perché aveva già compiuto reiterati acquisti di opere d’arte, aveva condotto un’attività di promozione commerciale, aveva predisposto un’organizzazione d’impresa e aveva manifestato l’intenzione di vendere le opere d’arte acquistate con proventi oggetto di finanziamenti bancari.

Con questa pronuncia, resa in ambito fallimentare, è dunque riconosciuta la qualifica d’imprenditore ad un soggetto dotato di «una rudimentale e limitata organizzazione incentrata in una sola persona e sorretta da scarsi mezzi materiali e personali», ma che aveva acquistato con continuità un elevato numero di quadri – 165 opere di importanti pittori – ed aveva impiegato un’apprezzabile organizzazione per il trasporto e la conservazione dei dipinti, nonché per lo svolgimento di attività promozionali. Tra le altre cose, la Corte ha posto l’accento sul “dichiarato scopo” di una “successiva vendita”, nonché sull’«avvenuto accesso al credito per rilevanti importi e sull’attività di promozione degli autori delle opere svolta al fine di accrescerne il valore, consistita nell’organizzazione di mostre e nell’invio di quadri a giornalisti ed esperti del settore». Il tutto pur in assenza di vendite. In questa sentenza è richiamato il principio in base al quale può aversi impresa anche prima che siano instaurati rapporti con terzi destinatari del prodotto d’impresa, quando vengono posti in essere «atti economici preparatori che permettono di individuare l’oggetto dell’attività ed il suo carattere commerciale (vedasi anche Cass. 10.9.1974 n. 2460)».

Il Supremo Collegio è intervenuto in questi temi anche con la sentenza n. 6465 del 6.5.2002 (riferita al previgente articolo 77 del DPR n. 597 del 1973). In questa pronuncia la Corte ritiene che i proventi conseguiti da un contribuente che, per 5 anni consecutivi, cede opere d’arte attraverso galleristi, debbano considerarsi, salvo prova contraria, redditi relativi ad un’attività commerciale.

Dopo aver analizzato alcuni casi giurisprudenziali, concludiamo con qualche annotazione riassuntiva

Solo le vendite effettuate dal collezionista puro – quello che acquista per godimento culturale ed estetico allo scopo di migliorare, incrementare, dare un nuovo indirizzo alla propria collezione oppure per dismetterla in tutto o in parte per ragioni personali fra le quali la necessità finanziaria o anche la semplice stanchezza collezionistica –  non sono assoggettabili a tassazione. Mentre le vendite del collezionista, ma a questo punto sarebbe più corretto usare il termine mercante o speculatore occasionale, che sono dettate da uno scopo di lucro – la volontà di realizzare una plusvalenza – sono assoggettabili alle imposte nei termini di Legge. Le vendite in questione possono rientrare nell’ambito di un’attività imprenditoriale o nell’ambito di un’attività d’intermediazione anche occasionale. Gli indici utilizzati dalla giurisprudenza per inquadrare i casi concreti nell’ambito o meno della tassazione sono i seguenti: la ridotta distanza temporale intercorrente tra l’acquisto e la vendita delle opere; la rilevanza del giro d’affari complessivo realizzato attraverso le cessioni; la mancanza di altre fonti di reddito in capo al venditore; il ricorso al credito finanziario per l’acquisito delle opere; la disponibilità di spazi espostivi o di depositi nonché di risorse personali e mezzi di trasporto; l’organizzazione di siti internet; la promozione dell’artista attraverso l’organizzazione di mostre o esposizioni. Sono invece ritenuti indici ininfluenti al fine della tassazione l’affidamento della stessa ad una casa d’aste, non potendo il collezionista affidarsi a mani inesperte. In ogni caso, l’assoggettamento dei proventi delle vendite consegue ogniqualvolta chi vende lo fa con l’unico scopo di perseguire una plusvalenza. Nello stesso tempo gli indicatori della volontà del venditore vanno contestualizzati e devono essere oggetto di una lettura complessiva. Né va scordato che l’onere della prova dell’intento speculativo grava pur sempre sull’Agenzia delle Entrate. È ovvio inoltre che l’applicazione dei criteri esposti è soggetta ad una certa dose di discrezionali tant’è vero che a volte si assiste a decisioni non sempre univoche.

Oltre a questo è bene fare presente che sono ormai molti gli speculatori nel mondo dell’arte, ed infatti sono state coniate le espressioni “wetpaint” (pittura fresca) e “flipping” (lanciando), per far riferimento alle opere d’arte acquistate sul mercato primario e rapidamente vendute in asta. Un’attività cioè prettamente speculativa. È auspicabile, quindi, anche alla luce del continuo accrescimento di operazioni speculative, che la materia possa trovare una disciplina normativa senza che ciò comporti una penalizzazione a carico del collezionista puro.

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