16 marzo 2020

Non è un Paese per smart worker: lavoro pubblico ai tempi del Coronavirus

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Vita difficile di uno smart worker: i Decreti per limitare la diffusione del Coronavirus hanno incentivato il lavoro a distanza anche per gli uffici pubblici. Ma non tutto funziona

Dopo una faticosa preparazione per l’attivazione del lavoro agile, siamo finalmente a casa. In breve, per fuggire al Coronavirus, siamo diventati improvvisamente degli smart worker, in applicazione delle indicazioni del Decreto #IoRestoACasa dell’11 marzo 2020.

Tutta l’organizzazione è stata delegata al buon cuore, e al buon senso, di ogni datore di lavoro, sia nel settore pubblico che in quello privato, mentre la procedura prevede che ogni dipendente rivolga richiesta formale per l’applicazione di questa misura. Ebbene, immaginiamo la mole di carte, proposte, richieste di chiarimento, istanze e risposte, revisioni e aggiornamenti prodotti, con relative riunioni e riflessioni sull’organizzazione interna, le congetture sul monitoraggio del lavoro in modalità agile, la definizione di quale ufficio sia realmente indispensabile mantenere in sede per garantire le funzioni dell’Istituto.

In buona sostanza, la settimana scorsa, gli uffici non strettamente connessi alla pubblica utilità e al contenimento del Coronavirus, come la sanità, hanno avuto un bel daffare per far rimanere i propri dipendenti a casa e trasformali in smart worker. E poi i turni, perché il lavoro agile solo in pochi casi può essere concesso cinque giorni su cinque. Risulta un isolamento a metà, come se il solo mettere piede in ufficio potesse garantire l’immunità dal virus. D’altro canto, il Decreto dell’11 marzo, così come i successivi, hanno gradualmente incoraggiato il lavoro agile senza però porre argine a interpretazioni estensive che obbligano numerosi dipendenti a incontrarsi ogni giorno a lavoro, scambiarsi carte e informazioni ignorando le distanze di sicurezza consigliate. Benché le amministrazioni abbiano preso le loro precauzioni, negli uffici il lavoro si deve svolgere a stretto contatto per sua stessa natura.

Cosa intendiamo per comprovate esigenze lavorative? Per chi lavora in un museo – uno qualunque dei meravigliosi musei del territorio italiano che, in questi giorni, stanno mostrando i muscoli escogitando ogni forma possibile di comunicazione del proprio patrimonio – sa bene che questa dello smart working è una prova riuscita a metà o poco al di sotto, tra mancanza di organizzazione interna e di chiari compiti distribuiti, pratiche e procedure in buona parte ferme a causa del forzato stop di questi giorni, mancanza di mezzi tecnici, impossibilità di monitorare il proprio lavoro a distanza. Che poi il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto è questione di ottimismo.

Tuttavia, da qualche parte si deve pur iniziare, per utilizzare correttamente questo strumento normato dalla Legge n. 81/2017. E chissà che questa misura, attivata in un momento di emergenza, non comporti un uso più diffuso e virtuoso di questo strumento, già ampiamente utilizzato nel settore privato ma che stenta ad affermarsi nella pubblica amministrazione.

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