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Domestica Vanitas: dove l’arte apparecchia la tavola del tempo
Mostre
Nel cuore di Vittorio Veneto, Domestica Vanitas inaugura la nuova stagione espositiva di Universo Factory con una ricerca che intreccia la dimensione privata a una riflessione più ampia sul tempo, sui segni che lasciamo e su ciò che inevitabilmente svanisce. La mostra si dipana come un racconto intimo e stratificato, in cui il quotidiano si fa simbolo e la memoria domestica si trasforma in arte.
Fuori dai circuiti istituzionali, lo spazio espositivo curato da Simone Ceschin prosegue il suo proposito di sostenere nuove generazioni di artisti offrendo a quattro studenti dell’atelier F dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, in questo caso, una piattaforma di libera ricerca, dove la sperimentazione si emancipa dalle logiche di mercato riaffermando la sua indipendenza concettuale.

Lontano dalla neutralità asettica del white cube, che promette un’arte svincolata da contingenze ma che di fatto ne impone un controllo, la specificità architettonica del luogo gioca un ruolo chiave, curata con premurosa attenzione in armonia con l’allestimento. Ogni opera sembra trovare il proprio respiro tra gli angoli raccolti e le aperture inattese: un dipinto fa capolino dietro una porta scorrevole, come se volesse svelarsi con discrezione; il quadro che ricorda la nonna dell’artista Emma Perona è collocato in cima alle scale, affiancato da una chiave che evoca un passaggio, promessa di un accesso simbolico a un’altra dimensione. Il sottoscala si trasforma in un rifugio intimo in cui il tempo sembra sospeso. Ogni dettaglio è pensato per riecheggiare un senso di familiarità e transitorietà, in un dialogo costante tra permanenza e dissolvenza.
Il cibo emerge come filo conduttore dell’esperienza, portatore di molteplici significati: un ricordo che si deposita sulla tela, un gesto che si tramanda, una traccia effimera eppure persistente. Nelle opere di Stefania Serio il cibo diventa veicolo di ricordi personali, trasformando l’atto della preparazione e della condivisione in una narrazione pittorica densa di affetto e ironia. I suoi dipinti racchiudono il senso di un’esperienza conviviale vissuta e poi rielaborata sulla tela, tra realtà e memoria. Qui la tavola è luogo di relazione, un momento sentito che si fissa nell’immagine pur rimanendo inafferrabile nel tempo.


Leitmotiv dell’esposizione, la tavola emerge anche nelle opere di Giulia Malatesta non più come luogo di convivialità, ma come spazio liminale carico di allusioni e silenzi. L’assenza diventa presenza sfuggente, l’oggetto quotidiano si svuota della sua funzione abituale e si trasforma in traccia di qualcosa che è stato e che ora si sottrae allo sguardo. La casa stessa si fa simbolo di un vissuto che si sedimenta e si dissipa, evocando la fragile memoria degli spazi e delle storie che li hanno attraversati.
L’approccio degli artisti si muove tra evocazione e sperimentazione, tra immagini che affiorano leggere e segni che si depositano nel tempo. Emma Perona lavora sull’idea di impressione avvolgendo le sue figure in una nebbia sottile che ne sfuma i confini senza mai definirli del tutto. Nei suoi dipinti i luoghi domestici diventano spazi di passaggio, soglie che trattengono un’eco di vissuto senza mai fissarla con rigidità, suggerendo un ricordo che non si impone ma che resta come un’impronta lieve, seppur indelebile.

Elia Peruffo, invece, cattura attimi che si accendono e svaniscono, frammenti notturni di una memoria che evolve nel tempo. I suoi piccoli ritratti trattengono l’istante prima che si dissolva, come un’immagine che affiora da un sogno e subito si perde. Tra ironia e delicatezza, le sue opere celano un senso di attesa, di qualcosa che è accaduto ma che continua a trasformarsi nello sguardo di chi osserva.
Nelle opere di questi artisti la tavola diventa un dispositivo simbolico: non solo luogo di condivisione, ma sede di silenzi e assenze. Se per Peruffo il pasto è un rito che si consuma e lascia ognuno solo con i propri resti, per Perona la casa si fa scenario di tracce impercettibili, di oggetti e angoli che respirano il tempo. Il cibo, in questo dialogo, è un atto sociale che si ripete e si frammenta, gesto quotidiano che nutre e al contempo scompare. La tavola si fa così emblema della vanitas: apparecchiata per chi c’è e per chi non c’è più, per chi guarda e per chi ricorda. In ogni piatto svuotato, in ogni segno lasciato sulla tovaglia, si deposita il ricordo di un gesto destinato a svanire.
Nel suo insieme, Domestica Vanitas riesce a trasformare la dimora in un palcoscenico della memoria, dove ogni quadro e ogni dettaglio si caricano di un valore quasi rituale. Qui, nell’architettura imperfetta e vissuta dello spazio espositivo, l’arte non si limita a essere esposta, ma vive, si stratifica, diventando parte di un’esperienza totale. Ci invita a interrogarci sull’effimero, sul significato di ciò che lasciamo dietro di noi, e lo fa senza la distanza museale, ma con la prossimità di una casa che ci accoglie, ci avvolge e, infine, ci lascia con il sapore sottile di un’assenza. Domestica Vanitas sarà visitabile fino al 29 aprile. A seguire, lo spazio accoglierà una nuova mostra con tre artiste dell’Atelier 12 dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.
