05 settembre 2025

«L’arte va fatta persistentemente e di continuo». Zehra Doğan al MACC di Calasetta

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Con ‘Light and Fight’, fino al 30 settembre, Zehra Doğan porta in Sardegna un’arte che unisce tradizione tessile locale e lotta politica, identità curda e voce femminile universale

Fondazione MACC, Zehra Dogan. Light and fight, installation view. Foto di Margherita Villani

Quanto possono essere lunghi i capelli di una donna? Neri come la pece, come i suoi occhi, i capelli di Zehra Doğan cadono lunghi, lunghissimi, fino a sfiorare la terra. Lunghi quanto si può farli crescere, quanto basta per bilanciare le migliaia di capelli che ancora oggi vengono tagliati, coperti, negati contro il volere di chi li porta. I capelli di Doğan scelgono di vedere la luce del sole, la polvere della prigione, il vento che li scompiglia. Alcune ciocche le sfiorano il viso per un istante, ma subito lo lasciano tornare a splendere, sotto il sole cocente della sua terra, il Kurdistan, che Doğan ha dovuto lasciare dopo due anni e nove mesi di prigionia tra le carceri di Mardin/Diyarbakır e Tarsus.

Sin da bambina ha imparato che larte non era soltanto espressione creativa, ma identità, azione sociale e politica: un modo per tramandare le antiche tradizioni del suo paese, raggiungere un pubblico vasto, sensibilizzarlo in merito alla questione curda.

Fondazione MACC, Zehra Dogan. Light and fight, installation view. Foto di Margherita Villani

«Unazione da fare persistentemente e di continuo» – come ha raccontato in una recente intervista su exibart. E con la stessa persistenza e determinazione Doğan affronta, nella performance Force Counterforce (2021), la sagoma di un carro armato: nel video, proiettato nella seconda sala della Fondazione MACC a Calasetta: i suoi capelli lunghi, incastrati nel cannone del carro, diventano simbolo di lotta contro loppressione.

Nella prima sala della Fondazione, arazzi coloratissimi popolano le pareti. Donne dagli occhi grandi e lucenti, metà umane e metà animali, vi si muovono sinuose: hanno imparato dai serpenti larte del silenzio e dellastuzia per costruire legioni armate. Doğan ricorda che già dagli anni Novanta nacque il primo esercito curdo interamente femminile. Lunghi, come sempre, i capelli di queste donne-dee volteggiano eterei insieme ai loro corpi, fluttuando sulle trame dei tappeti e delle tele. Alla base dellinvito della Fondazione MACC a ospitare lartista in Sardegna giaceva un vivo interesse di intrecciare larte contemporanea con lantica tradizione tessile isolana. Durante la sua residenza, grazie alla collaborazione con artigiane e tessitrici locali, Doğan ha trasformato i tappeti tradizionali in opere darte che raccontano storie di culture, resistenze e comunità. Un incontro di linguaggi che, come sottolinea la curatrice Valentina Lixi, assieme al direttore onorario Efisio Carbone, «richiama alla mente la prigionia del corregionale Antonio Gramsci: una prigionia anchessa feconda, dove il pensiero e la scrittura hanno saputo resistere alle privazioni».

Fondazione MACC, Zehra Dogan. Light and fight, installation view. Foto di Margherita Villani

Così anche Doğan, nei suoi anni di reclusione, continuò a creare. In Hews (Courtyard) (2018), una donna nuda, di un rosa acceso, giace distesa sul pavimento grigio e asettico della cella. Il corpo sensuale, formoso, il seno prosperoso, i capelli lunghi e abbandonati a terra: elementi che, in quel contesto ostile, diventano atti di resistenza. Mantenere femminilità e profondità di sé di fronte ai militari significa opporre un gesto politico e intimo insieme. In alto, un pavone – tracciato anchesso in rosa – si protende verso il filo spinato del cortile, come a volerlo oltrepassare. Simbolo di libertà e di speranza, ma anche allegoria di sé stessa: il pavone, nel sufismo, rappresenta la bellezza divina, la luce che si manifesta, ma anche lanima che, pur imprigionata, desidera elevarsi oltre i confini terreni. Nel Kurdistan, dove il sufismo ha radici profonde, questa immagine assume un valore mistico oltre che personale.

Molte delle opere di Doğan sono riuscite a evadere dal carcere grazie a stratagemmi e a una fitta rete di solidarietà femminile: la madre le nascondeva tra i panni sporchi da lavare, oppure le camuffava da abiti e gonne, cucendo merletti agli orli per mascherarle; ne è un esempio Jinen Li Hember (The Women in the Courtyard) (2018), dove sono rappresentate tre donne mentre fumano nel cortile del carcere. E proprio grazie alle compagne di prigionia che le procuravano materiali con cui dipingere, e alla madre, a questa silenziosa ma incessante resistenza femminista, che Zehra Doğan ha potuto proseguire la sua persistente e continua lotta.

Fondazione MACC, Zehra Dogan. Light and fight, installation view. Foto di Margherita Villani

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