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Cosa resta della Natura quando smettiamo di osservarla come sfondo idilliaco e iniziamo a pensarla come alterità attiva, agente, forse persino ostile? Quale memoria si innesta nell’umano e nell’arte, quando il paesaggio si sfalda in simbolo e il vivente non è più solo ciò che cresce ma anche ciò che muore? A partire da queste domande si articola In/Fondo. Innesto Ciò che rimane di te, mostra personale di Giulia Barone (Roma, 1994) e Gianmarco Savioli (Roma, 1996) curata da Giulia Pontoriero, visitabile su appuntamento dal 24 maggio al 12 giugno presso Spazio Iris di Spoltore, in provincia di Pescara.
L’esposizione si inserisce nel progetto pluriennale Naturale, che esplora la complessa costruzione culturale dell’idea della natura nel nostro tempo. In questa nuova declinazione, la natura si presenta come un’entità stratificata e ambivalente: monade mistica e corpo erotico, archetipo e perturbazione. Un oggetto di contemplazione e insieme un soggetto che ci sfugge, che muta, appassisce e si ritrae proprio mentre cerchiamo di comprenderlo o dominarlo.
«In/Fondo. Innesto Ciò che rimane di te, è un titolo che nasce anteriore a questo testo e che a posteriori sta manifestando tutta la sua coerenza. Cos’è che rimane di te (Natura)? Il ricordo di ciò che eri (la tua Essenza)? La sostanza materica che non hai più?», scrive Pontoriero nel testo che accompagna l’esposizione. «La volontà di trasporre il titolo in prima persona e accezione poetica, è allusione di una dichiarazione esplicita di intenti, di interventi e di tributo, ma potrebbe essere allo stesso tempo un’accettazione/rassegnazione dolce amara da parte dell’uomo di ammettere il proprio devoto asservimento nei confronti della natura? In/Fondo. Innesto Ciò che rimane di te, è un racconto visivo che parla di un amore, di un dono e di un senso di appartenenza profonda che ci lega a ciò che definiamo naturale e archetipo».

A differenza di molte collettive che invocano la nozione di dialogo tra artisti, qui si sceglie consapevolmente di non appiattire le differenze. Barone e Savioli condividono un sentire comune verso il naturale ma elaborano traiettorie autonome, lasciando allo spettatore la possibilità di tracciare analogie o accogliere significati divergenti. Se nei lavori di Giulia Barone si percepisce un’indagine sull’organico e sul frammento, sulla tensione tra struttura e dissoluzione, le opere di Gianmarco Savioli tendono a evocare il paesaggio come un avvicinamento a un’esperienza interiore, come rivelazione silenziosa. Entrambi, però, sembrano muoversi lungo una linea di frontiera: quella in cui l’esterno si fa intimo e l’umano si riconosce nella propria finitezza solo attraverso il declino del mondo che lo circonda.