24 giugno 2025

«Penso di aver solo perfezionato l’imperfezione»: Jacopo Benassi racconta la sua residenza a Palazzo Ducale di Genova

di

Nella Loggia degli Abati del Palazzo Ducale di Genova è stato trasferito temporaneamente l’atelier dell’artista, che trasforma il museo in uno spazio di creatività, sperimentazione e apertura al pubblico. E che dal 12 luglio diventerà una mostra. Ce ne parla in questa intervista

Jacopo Benassi, Studio visit

Sono in tanti, a ben vedere, gli attori che di concerto hanno lavorato per portare a Palazzo Ducale non solo una grande mostra sull’opera completa di Benassi, ma proprio l’artista in carne e ossa. Ma c’è dell’altro: ci hanno infatti portato anche il suo atelier. Grazie al lavoro dell’Associazione BLU – Breeding and Learning Unit di Genova, la Fondazione Palazzo Ducale, il Museo di Arte Contemporanea Villa Croce, e la milanese NABA, a brevissimo verrà svelato il lavoro inedito che l’artista sta realizzando ex-novo al piano terreno del museo in occasione di una residenza che terminerà alla fine del mese. Nel frattempo siamo andati a incontrare Benassi per conoscere meglio questo esperimento di arte contemporanea, che ha il sapore di quell’innovazione di cui Genova sembra avere sempre più appetito.

Allora, come ci sente ad essere ospiti del Palazzo Ducale?

«Sto dando tutto me stesso in questo lavoro, a esser sincero sono stanchissimo, anche se mi scoccia dirlo, perché sono convinto che il mio lavoro sia bellissimo, privilegiato, e ne sono molto felice! Sono però ligure anche io, quindi un po’ mi devo pur lamentare! Diciamo che l’idea di trasferirsi qui a Genova è stata abbastanza radicale, e ancora di più quella di portare qui tutto il mio studio, come se fossi a La Spezia. Però, ti dirò che non amo molto la parola “idea”, quindi non la diciamo [a noi invece piace, e quindi la mettiamo!, ndr]».

Khan of Finlad_Jacopo Benassi

A proposito del tuo progetto…

«Questa residenza si lega da una parte al progetto della mostra, molto voluto dalla direttrice Ilaria Bonacossa, per la quale voglio creare un’installazione inedita che verrà esposta insieme a quasi tutte le mie produzioni degli ultimi anni, e dall’altra alla necessità di approfondire una determinata tematica. Il lavoro che sto producendo è fortemente legato al territorio, costellato anche di performance e incontri, che in questo mese comporranno tutte insieme la mia opera».

Khan of Finlad_Jacopo Benassi_backstage

Partiamo dal titolo della mostra: Libero! Come dobbiamo leggerlo, e a quale libertà alludi con questa parola?

«Jacopo Benassi Libero! è un titolo ironico, perché la libertà qui sta nel messaggio al mondo della fotografia a cui voglio rivolgermi. Io vengo da là, dal mondo della fotografia appunto, ma ora mi sento un artista. La libertà secondo me è come un gatto che si morde la coda, perché nel mio caso significa passare dalla fotografia ad altri media per poi tornare indietro sempre alla fotografia. In questo caso non posso svelare già ora quale sarà l’opera che sto realizzando durante la mia residenza a Palazzo Ducale, posso dirvi però che riguarderà il patrimonio genovese e sarà intimamente legata a Villa Croce. [qui sarà depositata e conservata l’opera di Benassi al termine della residenza e della successiva mostra, ndr]».

Facci capire meglio. Per libertà intendi in questo senso l’abbattimento dei confini che separano in maniera rigida le diverse forme di espressione artistica?

«Esattamente. Passo dalla fotografia, alla pittura, all’installazione, arrivando al liberarmi della pittura per tornare alla fotografia nuovamente. È una liberta in cui non c’è più differenza… è un gesto artistico, anche se non so se chiamarmi veramente artista».

Tu vivi a La Spezia e ora sei a Genova, sembra che ci sia una certa vicinanza con il territorio. Quanto questa Regione, così complessa sia storicamente sia paesaggisticamente, esercita un ascendente sulla tua arte?

«Iniziamo con il dire che io considero La Spezia non più tanto Liguria ma Lunigiana. Più vai alle “punte” della Regione, e più il senso di legame si perde… però da quando sono arrivato a Genova mi sento sempre più parte di questo territorio, anche se in un certo senso come straniero! Devo ammettere che mi sto innamorando di Genova: è una città complessa, ruvida, in fermento: è tosta. Non la conoscevo bene fino ad oggi, ma più la esploro, più ci cammino e più mi piace. I vicoli sono unici, nascondono un mondo intero, e la città ti stupisce sempre, quasi non la riuscissi mai a conoscere per davvero fino in fondo. Ci sono un sacco di spazi stupendi e anche non utilizzati, che fanno capire tutto il potenziale di questa città, dove però sembra mancare un motore potente di produzione e promozione della cultura del contemporaneo, sebbene ci siano alcuni spazi di eccezione come il Ducale guidato da Ilaria Bonacossa o la galleria Pinksummer insieme ad altre gallerie pazzesche che sto conoscendo proprio in questi giorni!».

Però, ora che hai citato il lavoro che stai creando qui al Ducale, così intimamente legato alla città e alla sua atmosfera, ci hai incuriositi. Puoi dirci qualcosa di più almeno sull’ispirazione che ti accompagna?

«Quando entro nel mio studio cambia il mondo, tutto cambia, e io vorrei capire come comunicare il mio dissenso nei confronti della realtà che spesso è ingiusta, non è democratica, non solo quando parliamo delle guerre ma anche rispetto a quello che viviamo tutti i giorni nella vita quotidiana».

Ovvero?

«Siamo nel mondo dell’iper-controllo, in cui tutto ci è svelato, ci sono immagini di ogni cosa, non c’è segreto e mistero. Per carità, avere tante immagini, in senso assoluto, è positivo, lo dico io che sono un fotografo, e anzi un sacco di volte mi riguardo le immagini delle cose che ho fotografato in passato per conoscerle meglio, però il problema si pone quando si fa un uso improprio di queste immagini. Chi le controlla? Non tutti sono capaci di mettere le immagini al loro posto dopotutto… La fotografia in questa complessità è come se fosse il mio mandala: io entro là dentro e sono nel mio spazio, nel mio universo, mi sento a mio agio, anche se da tempo ormai cerco di ampliare in continuazione i miei modi di espressione e sento di essere diventato più artista che solo un fotografo. Le palme di Genova mi piacciono, mi ricordano la Costa Azzurra e la famosa Promenade di Nizza, sento un forte legame con i luoghi che abito, a cui sono affezionato, e in cui mi muovo nel mio spazio privato, ed è anche per questo, forse, che qui mi sento a casa».

Parliamo più in generale del tuo lavoro. C’è una componente carnale e materiale molto forte in ciò che fai: in un’altra occasione per esempio hai detto che senti un reale «godimento» nell’eseguire sia le tue opere sia le tue performance. In quello che stai creando oggi, e poi anche in mostra, questo attaccamento alla fisicità quanto sarà protagonista?

«Nella mostra intera ci sarà moltissimo di questa materialità, perché ci saranno tutti i miei lavori degli ultimi anni. Solo negli ultimi tre anni ho prodotto quasi cento opere, e tutte sono accomunate da questa fisicità. Le opere saranno esposte in modo inaspettato – e vedrete poi come! – ma ci sarà tutto del mio lavoro, comprese le cinghie che tengono insieme i quadri. Queste cinghie stringono e soffocano, ma allo stesso tempo creano una fragile compattezza, perché in verità i blocchi sono sostenuti insieme in maniera effimera. Nell’atelier organizzato dall’Associazione BLU invece c’è una componente minore legata alla fisicità. Il lavoro che sto facendo riguarda una riflessione più profonda sulla pittura e sulla fotografia come tecniche che si rimandano l’un l’altra. Non ci sarà stratificazione come negli altri casi, tuttavia un’allusione al corpo e al contatto tra i corpi la troverete nell’allestimento della mostra. Non posso svelare ancora come verranno accolti i visitatori nella parte finale del percorso, però il passaggio verso “il gran finale” comporterà un avvicinamento e un contatto di corpi che non ti aspetti!».

Tra le tante soluzioni di allestimento che stai meditando, ce ne riveli almeno una?

«La luce sarà protagonista. La luce è molto legata alla fotografia, io ho lavorato tanto con gli effetti dei flash e in generale sono convinto che la luce sia essa stessa immagine. Ci saranno quindi lungo il percorso e anche in uno spazio prestigioso del Palazzo delle lampade alogene che inondano di luce sia la sala, sia gli spettatori, sia le opere. Questo secondo me crea un contatto molto epidermico con il mio intervento, che lascia il segno e si imprime, utilizzando proprio il fascio luminoso come veicolo per far arrivare l’opera direttamente al pubblico».

Rollers_Sissi e Jacopo Benassi

Molto spesso attraverso le tue opere cerchi di esprimere concetti e formule legate alla contestazione, apprezzando gli spazi marginali e non istituzionalizzati. Il fatto invece di essere accolto all’interno di un museo importante come il Ducale come ti fa sentire? In qualche modo compromette o limita la tua vivacità creativa?

«Questo non è vero, e che anzi sarebbe ipocrita da parte mia pensarlo. Sono contento di stare in un museo e per di più di esservi esposto. In quanto artista io cerco infatti di raggiungere l’immortalità attraverso la mia arte, e per poter accedere a questa forma di eternità è anzi necessario passare attraverso i musei. Sarà forse che la morte mi fa paura, non vivere più mi spaventa, e magari un giorno cambierò pure idea, però ora mi spaventa moltissimo. Entrare in un’istituzione importante è come una sorta di “invasione di campo”, fatta con dolcezza, ma con presenza e determinazione. Voglio essere grato al luogo che mi accoglie, mi piace pensare di entrare nei suoi linguaggi per creare una discussione che è più confronto anziché una frattura violenta, a partire dalle persone che stanno dall’altra parte. Questo rientra un po’ nel mio modo di guardare il mondo da un punto di vista completamente inverso. Per esempio, la barricata, su cui ho lavorato molto ultimamente, è efficace a spiegare il mio atteggiamento, perché la barricata può essere vista come strumento divisivo e di violenta rottura, ma allo stesso tempo definisce uno spazio di contatto e di confine».

Jacopo, uno degli elementi distintivi della tua creatività è la musica: metti insieme suoni, rumori, trambusto, e crei delle cacofonie che riempiono gli spazi, li occupano massicciamente. Ci parli meglio di questo aspetto della tua arte?

«Non c’è tecnica nella mia musica, è semplicemente suono! Io certo di disimparare totalmente l’utilizzo dello strumento quando faccio le performance musicali, perché in questo modo raggiungo il fallimento. Ma il fallimento della performance è il mio successo in verità. Il mio limite è proprio l’imperfezione, il non conoscermi, e quindi quando mi esibisco ho molta consapevolezza del fatto che sto facendo una cosa senza seguire una precisa tecnica. Anche le mie cornici, per esempio, sono imperfette, imprecise, perché io mi sento così. Quando all’inizio provavo a fare le cose tecnicamente coerenti e belle, veniva fuori una schifezza. Poi mi sono lasciato andare, e ho accolto e accettato l’imperfezione, e a quel punto la mia arte ha iniziato davvero a essere mia, oltre a diventare un qualcosa che io in primo luogo posso chiamare arte. Ho solo perfezionato l’imperfezione. Le performance non mi fanno più paura, posso farle anche davanti al miglior performer e non sentire alcuna ansia, e questo perché io sono me stesso e sono tranquillo. Poi, il pubblico che è presente con me nella performance è fondamentale, anzi te lo diro meglio: è lui la performance. Le mie performance sono l’inno di quello che sono io: scoordinato, confuso, impreciso, anche pigro, ma sono io».

Salvati Salvàti, 2024_Exhib view at FMinini_Ph. Andrea Rossetti

Spiegaci meglio in che senso il pubblico è la performance. Dove va il tuo pubblico durante le esibizioni, lo porti metaforicamente da qualche parte che desideri tu, o pensi che ognuno viva liberamente e anche in modo contrastante questa esperienza?

«Vedere il disagio del pubblico durante le mie performance mi fa tenerezza. In molti vedo dell’imbarazzo, tanti non vogliono essere coinvolti, si capisce chiaramente che hanno paura. Io mi sento commosso, ecco così lo direi meglio, quando osservo il disagio delle persone che sono presenti con me nella stanza e si manifestano nella loro vera identità, non stanno recitando alcun personaggio, ma semplicemente sono, e questo però le rende perturbate. Quando faccio le performance davvero creo uno spazio di realtà, privo di compostezza, sempre in cambiamento».

Ti senti un po’ parte del cambiamento culturale che Genova sta provando a realizzare?

«Non voglio pensare di essere così importante o potente. La città dà un’energia pazzesca già da sola: dai vicoli ai suoi palazzi, secondo me Genova sta per esplodere, però vedo allo stesso tempo molta diffidenza. Alcuni genovesi oltretutto sono davvero scorbutici, però credo che questa sia anche un po’ colpa mia, perché sono ligure pure io, quindi forse sono io quello scorbutico tra gli scorbutici! Scherzi a parte, io vedo una città in cambiamento, con un pubblico attento, non così numeroso, ma crescente. Bisogna superare per l’appunto queste diffidenze e aprirsi alle novità. In questo senso ci sono degli spazi di innovazione e sperimentazione, come Palazzo Ducale, che stanno davvero provando a portare in città una cultura del contemporaneo a dare vivacità a questo luogo stupendo. Come ho detto prima, non voglio darmi troppa importanza, penso che sia un processo collettivo, però mi piace pensare che anche io posso aver dato il mio contributo in questa fase di rigenerazione!».

Ritratto_JB_Ph.-Alessandro-Trapezio

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui