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There is No Time: generazioni ’80 e ’90 in mostra alla Fondazione Morra Greco
Mostre
Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate di questo 2021, quell’attitudine al rinnovamento ha riattivato i suoi processi, forse anche più puntuali del solito, sicuramente più “sentiti”. Se durante i mesi più rigidi una certa vitalità aveva comunque continuato a scorrere, in queste ultime settimane qualcosa ha ripreso a circolare tra le strade. Tra le aperture più interessanti, un’ampia collettiva che cita il sole appunto, “There is No Time To Enjoy the Sun”, curata da Federico Del Vecchio e organizzata dalla Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee, istituzione della Regione Campania responsabile del Museo Madre. Visitabile fino a fine luglio, a Napoli, nei seducenti e caratterizzati spazi del cinquecentesco Palazzo Caracciolo di Avellino, sede della Fondazione Morra Greco – altra istituzione dedicata all’arte contemporanea che prevede la partecipazione della Regione, che ha finanziato il progetto – la mostra presenta 71 opere di 19 artisti, a partire da prospettive spaziali e temporali talmente precise da potersi definire anche locali e generazionali, considerando però un certo grado di approssimazione. Si tratta infatti di artisti nati in Campania tra gli anni ’80 e i ’90, formatisi quindi intorno a geografie, percezioni e atteggiamenti condivisi, alcuni rimasti in zona, altri spostatisi verso diverse mete, altri ancora ritornati: Alessandro Bava, Veronica Bisesti, Andrea Bolognino, Diego Cibelli, Effe Minelli, Claudio Coltorti, Carmela De Falco, Antonio Della Guardia, Giulio Delvé, Theo Drebbel, Maurizio Esposito, Giorgia Garzilli, Renato Grieco, Rebecca Moccia, Raffaela Naldi Rossano, Paolo Puddu, Roberto Pugliese, Camilla Salvatore, Ambra Viviani.
Però, a latere di un contesto topograficamente individuabile, il territorio è quello post-globale, testimoni dell’alba di quel mondo in bilico tra espansione e ritrazione come una cartolina a doppio riflesso, frammentato sulla superficie eppure coeso in certe correnti di profondità, creato dall’esplosione e poi dal crollo del fenomeno della globalizzazione e delle sue promesse. Un concetto visivamente riassumibile nel famoso meme della bambina ritratta di fronte alle Torri Gemelle: “The world you were raised to survive in no longer exists”, “Il mondo in cui sei cresciuto per sopravvivere non esiste più”. La gradazioni dei colori della fotografia – l’oscuro autore avrebbe immaginato che, un giorno, sarebbe diventata “virale”? – sono uniformate da quella patina sgranata, eppure tendente alla definizione, effetto blur, tipica degli anni ’90. L’azzurro sul vestitino della bambina spicca con una forza tridimensionale, da una posizione leggermente decentrata dell’immagine. Il prato alle sue spalle è verde scintillante, probabilmente mosso da un leggero vento fresco, che immaginiamo agitare anche la sua frangetta bionda. Sulla superficie del cielo, sgombro dalle nuvole, si stagliano lo skyline iconico di New York, il tracciato vertiginoso dei palazzi squadrati, l’affidabile permanenza delle Torri Gemelle, solidi pilastri della terra, svettanti verso l’alto.
Il tono sembra da “anno mille”, da catastrofica fine di un’epoca e forse è stato così, oppure il contrario. Apocalisse o rinnovamento? Troppo rigida la disposizione delle tessere in questo gioco dualistico. Per metterne in crisi le regole basta farsi un giro tra i tre densissimi piani di questa mostra “iperfonica”, ricca di deviazioni e contrappunti, di materie e di concetti, visitabile anche in un tour online da street view, segno dei tempi. Difficile ritrovare un’opera simile all’altra anche solo per un piccolo particolare, le strade espressive percorribili da questa generazione sono tantissime ma non sono tutte ed è giusto così. Poi, facendo attenzione, strizzando l’occhio e prestando l’orecchio, unendo gli indizi pazientemente rintracciati, un filo da seguire si trova pure ma potrebbe anche essere un meccanismo di riconoscimento di sicurezza attivatosi al di là della coscienza.
Come spesso capita in occasioni del genere, infatti, tanti sono i layer di interpretazione da sfogliare, ognuno indissolubilmente legato all’altro dalla presenza concreta di un’opera, anzi, proprio di quell’opera, esposta in questo contesto, in dialogo con tutte le altre. Inevitabile la tentazione di un taglio storico, che vale a posteriori, quando tra qualche anno si passerà in rassegna il materiale “narrativo” prodotto, tra fotografie di documentazione, comunicati e rassegne stampa, ricercando un elemento in comune oppure divisivo, una cesura, una individualità o una complessità. Ma a essere prezioso è il momento presente, l’attualità e le sue diramazioni, interpretate da artisti il cui linguaggio è ancora compreso in un segmento sperimentale, in via di definizione. Ne parliamo con Federico Del Vecchio.
Come sono stati individuati gli artisti e secondo quali criteri sono state scelte e allestite le opere?
«Gli artisti presenti in mostra sono artisti campani nati negli anni 80 e 90, i cosiddetti millenials, in quanto questo primo evento del progetto XXI rivolto ad una ricognizione dell’arte contemporanea in Campania, voleva iniziare proprio dando visibilità alle generazioni più giovani sul territorio. Una generazione che sicuramente ha bisogno di sostegno, sia per il periodo particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo da tempo, sia per un futuro non roseo che questa città continua a farci vivere. È un obbiettivo che la Fondazione Morra Greco ha molto chiaro.
La selezione ovviamente non ha la pretesa di rappresentare una visone esaustiva delle giovani ricerche attuali ma, piuttosto, ha l’intento di offrire uno spaccato che potesse illustrare linguaggi e approcci svariati. Infatti, la scelta non è stata rivolta unicamente agli artisti cosiddetti “visivi” ma ha preso in considerazione anche figure “trasversali” e che hanno un’interessante ricerca ibrida nel campo della sperimentazione sonora, come del film e del design. La scelta oltretutto ha tenuto presente la selezione dei creativi che operano prevalentemente sul territorio, quelli che hanno avuto e continuano ad avere esperienze all’estero e quelli che hanno lasciato questa regione da tempo».
L’allestimento ha seguito una costruzione quasi organica e visionaria, cercando di creare uno un percorso visivo-formale con inaspettate esperienze. Si è cercato di non creare uno “spazio” per ogni artista, piuttosto di “frammentare” le loro opere durante il percorso, quindi di ritrovare i lavori dello stesso artista durante questo viaggio esperienziale, creando uno storytelling dove le singole opere potessero avere la loro lettura individuale ma, allo stesso tempo, creare (tessendo) un linguaggio collettivo.
Credo che non sia possibile decidere a priori l’organizzazione di una mostra sia collettiva che personale, in quanto pur avendo immaginato delle strutture concettuali – organizzative, la costruzione in loco, le narrative e i link inaspettati che si generano, sono la parte eccitante di essa. Sono nate visioni che, anche se anacronistiche, riflettevano fortemente sul difficile periodo che abbiamo vissuto, caratterizzato dalla mancanza di contatto fisico.
Nel momento dell’allestimento, le opere iniziano a trovare una collocazione e un dialogo tra loro e il contesto. Prima ero sorpreso da quello che la “juxtaposition” poteva generare, poi con il tempo ne sono stato sempre più affascinato, cosi come del mirror effect di cui ci parla Haim Steinback. Ovviamente si è dovuto tener conto dei limiti-possibilità che gli splendidi e affrescati spazi della Fondazione presentano. In alcuni punti sono “intoccabili” ma, allo stesso tempo, diventano “un contenitore” fortemente caratterizzante che stranamente accoglie con una speciale energia».
La mostra è infatti attraversata da una certa sensazione di energia, alla quale del resto fa riferimento anche il titolo, “There is No Time to Enjoy the Sun”, in riferimento a Georges Bataille. Puoi dirci di più?
«Fa piacere che tu legga questa sensazione. Credo che le mostre anche se programmate e studiate in anticipo, risentano nel momento della costruzione, di quella energia di cui abbiamo già accennato. Il titolo – apparentemente negativo – non è un’appropriazione ma è stato da me pensato e fa riferimento a un territorio viziato dal cliché mediterraneo dove, nonostante i numerosi problemi, dal baronismo educativo universitario, al sistema sanitario, dalla disoccupazione al degrado infrastrutturale e soprattutto alla mancanza di possibilità per le giovani generazioni, ci si continua a godere la vita.
Succede spessissimo che colleghi stranieri affermino: “Che fortunato, vivi a Napoli, che bello/che meraviglia!”, ignari di quanto sia difficile vivere e crescere in questo territorio. Debbo dire che, nonostante tutto, è estremamente affascinante e magico. Una città simile ad altre del bacino mediterraneo, permeate da un anarchismo che traduce proprio quell’energia che i locali si trascinano e di cui si nutrono gli stranieri. Un contesto che probabilmente, per sua natura e per una storia stratificata, non diventerà mai e mai somiglierà a quelle realtà dove il welfare è fortemente evidente e presente.
Il titolo gioca su una dicotomia, da un lato fa riferimento al momento che abbiamo vissuto, spesso con forzature di lockdown, che – nonostante avessimo il sole – ci ha impedito di goderlo; dall’altro, il riferimento alla parte maledetta di Bataille vuole linkare proprio questa energia e follia collettiva partenopea a una visione più’ globale, come l’autore afferma: un’ansia cosmica che si riflette negli esseri umani, dettata dall’eccesso di energia solare e dall’impossibilità di gestire eventi cosmici».
Forte è la tentazione di individuare elementi comuni tra le ricerche ma il valore di un’operazione del genere, vista anche a posteriori, può risiedere anche nell’eterogeneità delle espressioni?
«Assolutamente, abbiamo già accennato a questi punti. Nel momento in cui la Fondazione Morra Greco e la Fondazione Donnaregina mi hanno invitato a curare questa mostra, ho dovuto riflettere per alcuni giorni. Mi sentivo onorato di questo incarico e del fatto che avessero chiesto a un artista di curare questo progetto, facendomi capire come i dieci anni di attività di Flip Project siano stati letti con interesse. Uno degli sforzi è stato sempre di creare una forte comunità, collaborazioni e link tra creativi che altrimenti non sarebbero avvenuti/sorti, dando vita a progetti ibridi e stimolanti».
A prescindere dall’eterogeneità o dai punti in comune, il dato di partenza è quello del territorio. Che panorama è emerso da questa ricognizione?
«Questa mostra è riuscita a presentare nello stesso spazio interessanti individualità, a far dialogare collettivamente le loro visioni e sperimentazioni, dar voce alla fine a una comunità. Credo che la mancanza di opportunità per i creativi locali, e non solo, sia dettata da una debolezza collettiva e da una solida mancanza strutturale. La presenza di una energica voce collettiva e delle sue visioni utopiche permetterebbe di credere al futuro del proprio lavoro e di diventare uno stabile punto di riferimento nella realtà culturale.
Gli artisti di questa generazione hanno accesso a una visione culturale globale, grazie allo “screen” e alla veloce mobilità; il loro lavoro, pur permeato intrinsecamente dalle radici e visioni antropologiche proprie della nostra cultura, ha assorbito le visioni e le sfumature dei linguaggi europei. Ha però bisogno di un concreto supporto e questo progetto è un importante inizio!».