20 febbraio 2006

decibel_talenti laterali The Liars

 
Berlino come luogo di elezione. E la musica come pretesto per una sperimentazione ad oltranza. Che attraversa il cinema, la performance e le arti visive. Quattro chiacchiere con Angus Andrew, mente del collettivo The Liars. Che racconta come liberare la mente ed estendere la percezione. Droghe incluse...

di

L’affermazione “facciamo di tutto al fine di non piacere” è tritamene storica-istrionica-critica. Ma ben descrive il mood di Angus Andrew, mente del collettivo The Liars (insieme ad Aaron Hemphill e Julian Gross) votata alla sperimentazione filmica (le coordinate sono quelle della Factory di Warhol) musicale (Sonic Youth e Velvet Underground a fare da muse) e performativa (Vito Acconci, ancora NY).
I The Liars sono attivi dal 2000 e oggi, con la loro opera Drum’s not Dead –un dvd & cd che raccoglie 36 corti e 12 temi musicali– abbandonano definitivamente il mercato meramente musicale per dedicarsi ad un concept delirante: due personaggi di nome Drum e Mount Heart Attack, una sorta di Yin e Yang iperdotati, iperstressati e autodubitanti. Il loro spettacolo sarà in Italia a partire da marzo 2006. Nel frattempo discutiamo con Angus della nuova creatura.

Angus, parlaci del tuo iter artistico-geografico.
Berlino è il mio “ora”. Devo dire che l’est europeo è più interessante rispetto all’occidente spocchioso. Per noi che abbiamo svolto attività artistica in America per diversi anni è una frontiera da scoprire. Qui a Berlino ogni evento è considerato speciale. Gratificante, no?

Mentre in passato…
Ho passato 10 anni tra Los Angeles e New York. Los Angeles ha innanzitutto una prospettiva storica completamente differente. In downtown trovi gente che cammina tranquillamente nuda per strada. E la sua arte –percepibile ad ogni incrocio– è più un attitudine: è fatta di pistole, luci, neon, insegne rotanti, colori smaltati da cadillac e highways. È un’arte cosmetica, di facciata. Un’arte molto comica anche; una visione sonica della vita. Non saprei descriverla in altra maniera. New York The Liars - fotografati da Steve Gullick ha un’attitudine molto cerebrale. E questo in genere non fa bene a nessuno, anche se un approccio mentale come quello di Vito Acconci per me è imprescindibile. Prima ancora, nasco in Australia.

Qualche indicazione per comprendere l’arte dei The Liars?
Il percorso è tortuoso: partiamo come progetto musicale (nel 2000) ma già dal secondo disco la dimensione cinematica è totale. Da lì in poi la musica diviene solo un elemento del tutto. L’obiettivo finale è una creatura che comprenda sperimentazione registica del colore e del montaggio (prendi ad esempio i tre corti di To Hold Your Drum) “animazione povera” (Be Quiet Mr. Heart Attack) e divertissement sperimentale.

Le performance sono un momento importante per comprendere l’arte dei The Liars…
Assolutamente. Soprattutto le performance durante gli art festivals sono il momento espressivo massimo per noi. C’è la componente visual fatta di nostri montaggi con Super8, ci sono i corti della nuova opera Drum’s not Dead, che abbiamo realizzato con il supporto del filmmaker Markus Wambsganss. E poi ci sono due percussionisti, io che urlo senza saper cantare e suono la chitarra senza aver mai studiato lo strumento. Ogni singola performance nasce da una crescente tensione nervosa che aumenta nel corso di tutta la giornata. L’inizio dello spettacolo è l’attimo di liberazione delle energie.

Ti faccio un nome: Velvet Undergroud di Lou Reed
Approvo, e poi la Factory di NY, i Sonic Youth che sono in nostri padri musicali.

Quindi droga, mi sembra di capire. Mi parli del rapporto arte-droga per te?
Ah, fantastico. Per me è indissolubile. Perfetta per stare chiusi in una camera, altrettanto per dedicarsi ad un viaggio a fini emozionali. Il grande vantaggio della droga è acutizzare la sensibilità. Su di me ha un grande effetto creativo, estende il senso del reale.

Un altro scatto di Steve GullickQual è la direzione dei The Liars oggi?
Principalmente lanciata lungo due strade: crossover ed errore. Crossover poiché siamo pronti ad affrontare un concept work sulla cultura giapponese, ad esempio. Insomma nessuna preclusione.
Soprattutto non serve più a un cazzo dedicarsi ad un unico strumento espressivo (la musica per noi, in origine) o vivere in un determinato luogo. Consiglio infatti a tutti gli artisti di venire qui a Berlino poiché il costo della vita ridotto permette scelte espressive altrimenti irrealizzabili. Allo stesso tempo sto pensando di andare a vivere in Sicilia, mentre i miei collaboratori sono attualmente a Los Angeles. Crossover appunto.

E l’errore?
Prendi la regia di Drum’s not Dead. L’errore costituisce buona percentuale del lavoro. Il caso. Avremmo potuto studiare a fondo i programmi di montaggio. I programmi di animazione. Avremmo potuto affidarci a professionisti. Che palle! Invece accanirsi nell’ottenere il risultato desiderato senza i mezzi ci ha portato a esprimerci in maniera unica. L’arte deve essere organica. Non crediamo nell’aspetto digitale puro dei visuals, nella pulizia. Roba da discoteca.

link correlati
www.liarliarsliars.com
www.mute.com

alberto motta

[exibart]

4 Commenti

  1. ‘Avremmo potuto studiare a fondo i programmi di montaggio. I programmi di animazione.’

    troppa fatica?

    ‘L’arte deve essere organica.’

    sì ma la merda rimane comunque disgustosa

  2. complimenti x questo pezzo. quando leggo articoli così tempestivi riesco anche a dimenticarmi che voi di exibart mi fate spesso i dispetti e scrivete cazzate nell’oroscopo
    con stima
    lb

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui