29 ottobre 2020

Il ritorno a Roma di Manolo Valdés: intervista a Gabriele Simongini

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Manolo Valdés, artista spagnolo di fama internazionale, torna a Roma dopo ben 25 anni con un’ampia retrospettiva ospitata nelle sale del Museo di Palazzo Cipolla, fino al 10 gennaio 2021

Con le sue opere, Manolo Valdés dimostra che l’arte senza radici storiche non può esistere. Portando avanti la sfida di innestare un’immagine nuova su una preesistente, Valdés incarna perfettamente il principio indiscutibile che la vera arte nasce per emulazione, che ogni artista nasce da qualche altro artista, in una perenne trasmissione in divenire di esperienze nel tempo.

Il pittore e scultore spagnolo risponde elegantemente alla tirannia di un sistema dell’arte basato sul pregiudizio del “nuovo a ogni costo” dimostrando che il “nuovo” ha radici originarie e non banalmente originali. Egli sa bene che le Muse sono figlie di Mnemosyne, la dea della memoria. Ne parliamo con il curatore della mostra al Museo di Palazzo Cipolla, Gabriele Simongini.

Le forme del tempo, per Manolo Valdés: l’intervista a Gabriele Simongini

Cosa rende Manolo Valdés un artista di riferimento della contemporaneità?

«Valdés fa parte della schiera di coloro che, per parafrasare Marc Fumaroli, lavorano come “l’ape virgiliana, che elabora per altri un miele colto da mille fiori esterni e anteriori a lei” al contrario del “ragno moderno, che si nutre delle proprie viscere”. Con le sue opere egli ha dato via una sorta di Macchina artistica del Tempo, capace di “tornare” nel passato e di modificarlo, facendo nascere un altro universo, e realizzando per via intuitiva un sorprendente parallelismo con la teoria scientifica post-relativistica chiamata Open Quantum Relativity, che ipotizza due frecce del tempo, una rivolta verso il futuro e una indirizzata verso il passato. Infine, la strepitosa sapienza tecnica che lo porta a lavorare le materie più diverse, ci fa capire che la mano è fondamentale nel processo creativo, perché la mano “sente e pensa”, contrariamente a quello che pensano, sbagliando, in tanti».

Dama a Caballo en Azul, 190x190cm, olio su tela, 2017

L’ultima esposizione delle opere di Valdés a Roma risale al 1995, negli spazi della galleria del Gabbiano. Oggi, dopo 25 anni, si inaugura un suo nuovo appuntamento. Qual è il suo significato, in un momento storico così complesso come quello che stiamo vivendo ormai da diversi mesi?

«Rispondo con le parole di un mecenate straordinario come il Prof. Emmanuele F.M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, che ha fortemente voluto questa rassegna: “dare spazio a eventi come questa mostra, è ancora più importante in un momento storico qual è quello attuale, afflitto dall’emergenza sanitaria e dalla conseguente grave crisi economica e sociale che ha colpito il nostro mondo”. Ci vuole coraggio ad aprire in questo periodo così difficile una mostra così ambiziosa ed impegnativa, che vuole dare speranza, allegria e anche divertimento a chi la visiterà. E poi Valdés ci dice costantemente con le sue opere quanto sia fondamentale nutrirsi di storia, non dimenticare, non cancellare, non lasciarsi sopraffare dall’oblio del presentismo».

Rostro tricolor sobre fondo gris, 2006, © Manolo Valdés by SIAE 2020

Qual è la riflessione che si cela dietro al titolo e perché proprio “Le Forme del Tempo”? 

«Nel titolo c’è un omaggio ad un testo fondamentale come “La forma del tempo” di George Kubler. Dai capolavori del passato Valdés estrae, geometrizzandola e rivitalizzandola con le lacerazioni e imperfezioni della materia e dello scorrere dei secoli, una sorta di forma archetipa, una “forma del tempo” che diventa emblema figurale di un suo lungo e libero cammino nella storia dell’arte, dal Seicento all’informale e all’immagine pop, fino all’installazione contemporanea nelle metropoli. Gli artisti del passato più o meno lontano, diventano per Valdés interlocutori con cui intrattenere un contatto quotidiano, a cui rendere omaggio, e che ampliano lo spazio polifonico del suo lavoro. È come se l’immagine prelevata da Valdés nel passato più o meno recente si fosse trasformata recependo i mutamenti dell’arte successiva, fino ad approdare in una nuova veste davanti a noi, con i buchi e le lacerazioni impressi da questo lungo viaggio nel tempo».

Manolo Valdés, Cabellero, Contini gallery, Venecia

Come si articola il percorso espositivo?

«Il percorso espositivo è scandito per sezioni tematiche che tengono conto, al loro interno, di un ordine cronologico, facendo dialogare osmoticamente pittura e scultura. Ecco quindi le citazioni (dalla pittura rinascimentale italiana alla pittura spagnola del Seicento, per proseguire con Manet, Matisse, Picasso, ecc.), la pittura come magma primordiale, i volti femminili, gli oggetti, le sculture d’invenzione. Il percorso intende mettere costantemente in rilievo i tre elementi fondamentali della ricerca di Valdés: il desiderio di rinnovare la pittura figurativa, il dialogo con i Maestri della storia dell’arte, l’esperienza della materia. Sono orgoglioso anche di aver proposto, per primo, un nuovo esperimento di proiezione su un’opera di Valdès di un quadro di Velázquez, che visualizza immediatamente il processo concettuale che è alla base del suo lavoro».

Insieme all’esposizione indoor negli spazi di Palazzo Cipolla era stato elaborato anche il progetto di disseminare le sculture di Valdés nelle piazze romane. Idea che purtroppo non è stata messa in atto a causa dell’emergenza Covid. Con i suoi interventi urbani, Valdés sembra perseguire l’idea di un’arte accessibile a tutti e, al contempo, capace di mettere in discussione il mondo. Può parlarci di questo aspetto?

«Valdès per sua natura vuole che l’arte sia popolare, non elitaria, diretta a tutti, tanto che ama sentire le più diverse interpretazioni delle sue opere. L’arte deve essere per tutti. E come ha detto l’artista in una mia intervista, “la scultura finisce per essere contagiata da ciò che le sta intorno. Io stesso la percepisco in modo diverso a seconda del luogo in cui si trova. Non è la stessa cosa vedere un mio lavoro in una piazza di Roma o durante le notti bianche di San Pietroburgo. È diverso osservare una scultura su Park Avenue a New York dove c’è traffico urbano che divide lo spettatore dall’opera o nella tranquillità di Place Vendôme o del Palais Royal di Parigi. Cambia molto vederle coperte di neve nel giardino botanico di New York o in un paesaggio desertico in Arizona pieno di cactus e con il sole a picco”».

Ci sono opere particolarmente indicative o significative che può segnalarci all’interno della mostra?

«Direi il grande “Caballero” in bronzo che unisce l’epicità dell’omaggio a Velázquez con la semplicità dell’idea di partire, per la sua realizzazione, da semplici cartoni presi per strada. Quindi la “Libreria” in legno che ci invita a unire di nuovo natura e cultura. E poi il corteo di dieci Meninas in bronzo che sembrano voler dialogare da pari a pari con il visitatore, e ancora le sculture con poetici e fantasiosi copricapi e, infine, quelle in cui il disegno diventa opera plastica, leggera e lirica, con una fantasia senza pari. Potrei continuare a lungo, e non posso fare a meno di concludere citando i quadri materici e anche drammatici che partono da capolavori di Ribera e Zurbarán».

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