24 luglio 2012

In lode di Thomas Schütte

 
Dal realismo alla figurazione è il percorso con cui Alfredo Pirri disegna un ritratto dell'artista tedesco in mostra al Castello di Rivoli. Uno scavo nelle sue origini europee che arriva al fallimento della nostra cultura. E che passa per lo scardinamento dell'orizzonte dell'arte appiattito negli anni Ottanta su inutili dualismi. Fino ad immergersi nella necessità del rapporto tra monumento e città. E delle espressioni umane

di

Nel 1992 Thomas Schütte era ospite all’accademia Tedesca di Villa Massimo a Roma. Poco dopo il suo arrivo in città mi chiese dove comprare dei colori. Il giorno dopo mi disse che quel negozio (noto per essere frequentato dalla maggior parte degli artisti romani) non andava assolutamente bene… troppo “artistico”. Aveva invece, trovato una cartoleria rifornita anche di colori, ma soprattutto aveva trovato lì un materiale ceramico da modellare che induriva nel forno di casa. Con quel materiale ha poi realizzato alcune sculture di piccolo formato diventate una serie intitolata United Enemies o Innocenti. Figure umane ma anche specie di marionette (che facevano ricordare i “Musei della marionetta” di Torino e Palermo), con volti molto espressivi e corpi di tessuto impalcati su legno. I volti erano dettagliati e caratterizzati da “pose” accentuate di stupore, dolore, introspezione, curiosità. Un catalogo di espressioni umane e stati d’animo fino ad allora scomparse dal vocabolario artistico che continuava, invece, a proporre figure anonime, indistinte e opere prive di caratterizzazioni singolari. Erano statuette che facevano pensare a Medardo Rosso e che ripresentavano la questione del senso e dell’espressività personale, singolare, al posto di uno stile anonimo e basato sul linguaggio acquisito dell’arte. Quelle “statuette” hanno poi fatto da modello a sculture sempre più grandi, veri monumenti in materiali tradizionalmente affini a quelli della scultura ma sempre usati in maniera imprevista e con accostamenti espressivamente e narrativamente inediti.

Nello stesso tempo, insieme alle piccole sculture, Schütte approfondiva lo studio del disegno in dettaglio della figura umana, dovendosi inoltrare in una dimensione in cui la figurazione non sarebbe apparsa più come evidenziazione di una scala di misura da raffrontare alla dimensione architettonica, ma sarebbe diventato sempre più un tema autonomo, un’urgenza espressiva e significativa.

Dalla Pop art all’arte popolare

Thomas Schütte è un artista che ha contribuito in modo radicale a ridisegnare la cultura europea rendendone più trasparenti i confini ma senza rinunciare alla sua identità (anche nazionale). Col suo lavoro ha spostato l’attenzione del dibattito artistico, rivolto fino alla metà degli anni Ottanta a scontri fittizi fra spazialità e pittura, memoria e oblio, astrazione e figurazione, Concettualismo ed Espressionismo… Dualità che non appartenevano più né ai veri bisogni dell’arte né a quelli della società. Opposizioni che si sono trascinate seguendo un rituale mortifero fino al nostro tempo, fino a quando, finalmente, gli artisti più giovani ne hanno definitivamente e volutamente dimenticato l’esistenza.

Thomas Schütte è uno dei protagonisti di questo mutamento artistico insieme con altri, come ad esempio l’artista suo concittadino Harald Klingelhöller. Il suo interessamento verso l’architettura da una parte e la scultura monumentale dall’altra, o meglio ancora, del rapporto intimo e necessario fra monumento e città, ne ha fatto un precursore (tanto doloroso quanto ironico) di molta arte che dopo di lui s’interrogherà sulla scomparsa del senso di appartenenza a una civiltà, quella europea, considerata ormai in declino irrimediabile, anzi pericolosamente resistente a una fine considerata giusta e necessaria. Molta di quest’arte ha declinato il suo linguaggio con un vocabolario Pop, attingendo al magazzino dell’immaginario e del linguaggio che ha fatto di quel movimento il principale strumento di critica e di assuefazione a una dimensione merceologica dell’esistenza. Anche Thomas Schütte ha guardato a quel movimento ma con estrema soggettività e malinconia, sentimenti tipici di ogni grande artista tedesco che si sente in bilico fra considerarsi parte integrale di un popolo e al contempo il suo peggior nemico.

Non è casuale che lui abbia guardato con interesse ad altri artisti altrettanto in bilico nei confronti della loro identità nazionale. L’americano (rifugiatosi in un “corral” nel New Mexico) Bruce Nauman, l’inglese (fuggito in California) David Hockney, l’italiano Mario Merz in fuga permanente, artisti che hanno vissuto e vivono un profondo conflitto tra considerarsi parte di una cultura specificamente nazionale e al contempo tenersene lontani. Di questi artisti penso abbia amato l’immediatezza e la capacità di sintesi, il congiungimento eroico fra solitudine e capacità di senso critico e collettivo, maestria tecnica quasi naturale e disinteresse verso i suoi scopi. In questo senso, il suo interesse verso la Pop art non è da intendersi come condivisione dei temi (tipicamente statunitensi) che hanno a che vedere col mondo delle merci o delle comunicazioni di massa. Bensì interesse per qualcosa di realmente e intimamente popolare, cioè qualcosa di radicalmente connesso con lo spirito della cultura europea fin dal suo nascere dalla matrice greca, laddove le arti tendevano a riunirsi in una forma generale prima della distinzione fra generi e dove non si scambiava l’identità fra il popolo e la sua arte con le immagini che la sancivano.

Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che anche noi, italiani, abbiamo avuto un momento veramente “pop” non però quello rappresentato dalla “Scuola di Piazza del Popolo”, ancora tutto dentro le strategie del piano Marshall, invece il Neorealismo, sia cinematografico che letterario (entrambi influenzati da Picasso) coniugato con le pratiche sperimentali e astrattiste nate dal bisogno di sviluppare e abbandonare quel quadrato nero di Malevič che tanto aveva (ed ha) sconvolto il dibattito artistico proprio sul tema della dimensione popolare dell’arte. Forse non è casuale che al termine del suo soggiorno Italiano Thomas Schütte abbia realizzato dei bellissimi disegni dedicati a Pierpaolo Pasolini che ritraggono il paesaggio di Ostia e alcune delle torri d’ispirazione michelangiolesca che sorgono lungo la strada che porta dalla città verso il mare.

Art where are you?

Conservo un piccolo acquerello di Thomas Schütte così fatto: dentro un fondo unitario, bruno, molto scuro, quasi nero s’intravedono due patate umanizzate che, con gli occhi rivolti in alto puntano l’osservatore chiedendo con una scritta “Art where are you?” Per me, questa è la domanda costante che si pone Thomas Schütte (e che pone a noi) col suo lavoro. La risposta è nelle sue opere, l’arte sta in molti posti e in molti sentimenti a condizione di saperla cogliere e figurarla, quindi direi che l’arte sta soprattutto in questa capacità (che lui ha) di dare forma, figura e senso alla sua appartenenza ad un mondo tanto diffuso quanto misteriosamente incomprensibile (se non attraverso l’arte).

Col suo lavoro ci riporta sempre un’immagine proveniente da un fondo scuro e che, a volte, viene riassorbita da quest’oscurità di origine e che altre volte brilla come una stella di assoluta purezza. Questa presenza simultanea di buio e luce, pastosità e fulgore, è proprio il dato caratteristico di un artista tedesco che, come un rabdomante, cerca dalla superficie terrestre i fiumi nascosti della cultura europea che gli scorrono sotto i piedi restituendocene il rumore e la freschezza. Un rumore di fondo cupo e bruno che convive insieme alla freschezza cromatica e all’incisione perfetta dell’immagine. Così come perfettamente si stagliavano contro il cielo azzurro, a Kassel nel 1992, le grandi ceramiche intitolate Die fremden poste sul tetto del Fridericianum – Die fremden, “Agli stranieri” che provenivano allora in Europa da un mondo bruno, cupo e indistinto, stranieri celebrati nei loro colori variopinti, accompagnati da vasi, e posti in cima al tempio dell’arte come le statue greche in cima ai templi sacri.

Ultimo breve racconto personale: Thomas Schütte, in visita a casa durante il Natale, realizza rapidamente per il presepe delle mie figlie un topo in piedi in plastilina grande quanto un pastore ponendolo alle spalle della grotta. A Barcellona, durante le feste di Natale si trova nei mercati popolari una statuetta importantissima nel presepio Catalano, la figura del Caganar. Un personaggio che fa vistosamente la cacca e che si nasconde alle spalle della grotta, una presenza diabolica, scura ed essenziale a completare il racconto della nascita. Mi sono spesso chiesto se Thomas fosse consapevole di questo legame fra il suo topo e il Caganar, fra i loro aspetti simultanei di dissacrante e sacro.

Ps.

Il ringraziamento più grande a Tucci e Lisa Russo per averci donato la presenza di Thomas Schütte in Italia.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te lo sei perso? Abbonati!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui