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19
settembre 2017
L’intervista/ Emma Lavigne
Personaggi
IO E IL MODERNO FLUTTUANTE
Incontro a poche ore dal via, con la direttrice della 14esima Biennale di Lione
Incontro a poche ore dal via, con la direttrice della 14esima Biennale di Lione
Emma Lavigne, classe 1968, è la curatrice della 14esima Biennale di Lione “Les mondes flottantes” che si apre al pubblico il 20 settembre presso la Sucrière e il macLYON, per chiudersi il 7 gennaio prossimo. Alla domanda del perché abbia scelto Lavigne, Thierry Raspail, direttore artistico della manifestazione francese, ha risposto per la sua visione di un “moderno allargato”. Clin d’oeil a Zygmunt Bauman e alla sua idea di società “liquida”, la Biennale d’Arte Contemporanea di Raspail esplora l’eredità e la portata del concetto di “moderno” nella creazione attuale, che ha deciso di trattare per tre edizioni consecutive. Siamo arrivati al secondo tomo di questa trilogia, il cui primo è stato curato da Ralph Rugoff che ha piazzato l’artista di fronte alla sua storia, alla vita d’oggi con le sue contraddizioni. Specializzata nel rapporto tra arti visive e musica Emma Lavigne è l’attuale direttrice del Centre Pompidou di Metz che investe come spazio di sperimentazioni tra le arti. Tra le principali esperienze professionali ricordiamo che è stata curatrice presso la Cité de la Musique di Parigi, ha curato tra l’altro la mostra di Pierre Huygues al Centre Pompidou di Parigi nel 2013, ed il padiglione francese della 56esima Biennale di Venezia rappresentato da Céleste Boursier-Mougenot. L’abbiamo intervistata spinti dalla curiosità di saperne di più su una curatela che spazia tra le arti sollecitando la multidisciplinarietà a più non posso.
Con oltre 50 artisti presenti all’evento, qual è l’opera che metteresti in un ipotetico pannello di un trittico ispirato al moderno?
«C’è un’opera molto emblematica del moderno ed è Sky Line del 1967 di Hans Haacke, che sarà presentata durante tre giorni. Si tratta di un insieme di palloncini bianchi sospesi nel cielo che sfilano lungo una linea. È una creazione che ha una dimensione immateriale e traduce un concetto di modernità che ritroviamo anche in Rainer Maria Rilke quando s’interroga sul posto del poeta e dell’artista nel mondo moderno. Il noto poeta parlava di un mondo che non è più strutturato come prima ed in cui tutto è come sospeso. Questo pallone nel cielo evoca molte opere della modernità, nel senso di apertura della creazione artistica allo spazio come avvenuto in Lucio Fontana o in Calder. È certo un indicatore importante nella Biennale di Lione, perché rinvia a correnti artistiche della modernità, penso al Gruppo Zero in Germania che ha cercato di reinventare forme nuove».
Shimabuku, When sky was sea, 2002 Performance – Video Installation courtesy the artist and Air de Paris, Paris
Quale verbo rappresenta meglio il lavoro del curatore? Presentare, selezionare, organizzare, educare, umanizzare, sedurre o…
«Per quanto riguarda questa biennale, se ho diritto a due parole (sorride), sceglierei in primo luogo provare, sentire intensamente. Una biennale è diversa da una mostra: ha tempi più lunghi di preparazione, anche diversi anni di ricerche. Inizialmente ho trascorso molto tempo a cercare di sentire il contesto in cui si vive. Partendo da questa percezione del contemporaneo ho tradotto uno stato delle cose che ho restituito poi attraverso un mondo fluttuante, legato all’incertezza, alle molteplici possibilità e connessioni che si possono stabilire, ma anche alla bellezza e alla poesia. La seconda parola è comporre. Nel senso di comporre forme di libertà, non dando un angolino ad ogni artista, ma cercando legami tra le creazioni per comporre un paesaggio immaginario tra suoni, performance e momenti di intensità. Provare e comporre evocano proprio ciò che ho cercato di realizzare a Lione».
Nel corso della tua carriera di curatrice ti sei occupata di musica, di danza e altro ancora. La visione che hai dell’Arte Contemporanea è aperta, dai bordi sfumati. Non hai paura di ritrovarti tutto ad un tratto a percorrere lande desolate?
«In principio la parola moderno mi ha un po’ infastidito, ma presto si è rivelata attraverso Mallarmé che nel campo della letteratura inventa lo spazio moderno liberando le parole nella pagina, o Isadora Duncan che nella danza si libera da ogni costrizione, per lei la vita è libertà suprema. Del resto il titolo dell’esposizione “Danser avec la vie”, che io e Christine Macel abbiamo curato nel 2011 al Pompidou di Parigi, si ispira proprio alla danzatrice statunitense. Penso anche alla musique en plein air di Claude Debussy, ma anche a Erik Satie che continua ad ispirare alcuni artisti presenti alla biennale, o alla dodecafonia di Arnold Schönberg, che fraziona, scompone. Sono molto interessata al processo e alla capacità dell’opera di metamorfizzarsi. Questa assenza di limiti, che hai giustamente invocato, corrisponde proprio alla mostra che ho realizzato ultimamente al Pompidou di Metz, (“Jardin infini. De Giverny à l’Amazonie”, aperta fino al 28 agosto). Giardino come luogo di metamorfosi permanente in cui si situa la frontiera tra il vivente e l’opera d’arte, che è parte delle questioni a cui m’interesso e che ho sviluppato anche nella mostra di Pierre Huyghe. Alcune terre desolate possono essere interessanti, penso a certe forme di melanconia, di esplosioni estetiche, verse più alla meditazione che alla spettacolarità, in cui si genera uno sguardo più filosofico. Le terre desolate sono per me un luogo di deriva e di immaginario, in cui ritroviamo artisti presenti a Lione come Lara Almarcegui o l’artista giapponese Shimabuku che rende poetico il reale trasformando il cielo in paesaggio come in When Sky was Sea. A Lione farà volare mucche».
Hans Haacke, Together, 1969-2013 Courtesy the artist and Paula Cooper Gallery NY © Hans Haacke_ Artists Rights Society ARS, NY_ VG Bild Kunst Europe, ADAGP
Quali sono le esperienze che ti hanno formato come curatrice?
«Ricordo che a cinque anni ho assistito ad un concerto di Stockhausen in cui si sentiva risuonare uno sfavillante grande gong posto al centro della scena. Questa immagine continua ancora oggi ad ispirarmi, ed è la dimensione scenica e la sua intensità che cerco di trasporre quando curo un’esposizione. C’è anche una mostra pluridisciplinare che per me è stata fondamentale, si tratta di “Vienne 1880-1938. L’apocalypse joyeuse” al Centre Pompidou».
I curatori francesi sono molto sollecitati in questo periodo. Tu, ma anche Christine Macel per la Biennale di Venezia, o Clément Chéroux, curatore al Pompidou, oggi direttore del dipartimento di fotografia al Moma di San Francisco. Pensi che si possa parlare di uno stile alla francese?
«In Francia c’è molta vita nelle istituzioni. Il Pompidou di Parigi è un luogo multidisciplinare in cui non si lavora in modo accademico, e dove si è sempre in contatto con artisti e professionisti del campo dell’arte. È un luogo molto formatore, insomma è una vera e propria città. In qualità di curatrice ho sempre avuto la massima libertà di scelta e di azione, ho sempre agito come mi sembrava più opportuno. La risposta forse sta nella libertà che uno si concede nello scegliere e nell’operare».
BOURSIER-MOUGENOT Céleste, clinamen (détail), 2013 Courtesy Galerie Xippas et Paula Cooper Gallery © Chrsitian Markel, Céleste Boursier-Mougenot
La Biennale di Lione è un momento importante nella vita artistica francese. In considerazione al numero sempre più crescente di nuove biennali che emergono nel mondo, a tuo parere, questa manifestazione può pretendere di cambiare il flusso dell’arte?
«La Biennale di Lione non ha un grande budget, il mio motto è stato quindi small is beautiful. Ma è proprio in questo senso che diventa un modello, un riferimento per altre piccole biennali emergenti. Ci sono meno imperativi e più libertà, e questo è importante per gli artisti ma anche per chi organizza eventi di questo calibro. Con meno spazio e pochi mezzi si può comunque proporre qualcosa di unico. In questo senso questa manifestazione sollecita altri ad organizzare eventi che sembrano impossibili da realizzare».
In qualità di storica dell’arte, su una linea del tempo che enumera gli eventi artistici più importanti di questi anni, come definiresti questo evento lionese? Un passaggio che rafforza i rapporti tra le diverse discipline artistiche o un momento di follia?
«Direi che rafforza i legami tra le discipline artistiche. Prediamo il suono, ultimamente molti artisti contemporanei sono spontaneamente portati a lavorarci. Mi piace molto la frase di Pascal Quignard che dice che le orecchie non hanno palpebre, nel senso che la percezione del suono è intimamente legata al corpo. D’altro canto non direi che si possa parlare di un momento di follia perché c’è molta riflessione dietro tutto ciò, molte cose da articolare. Quello che ho voglia di proporre al pubblico è una sorta di passeggiata lungo un cammino che magari si separa in due. Prediamo Floats e Rugs, le sculture galleggianti di Robert Breer, quasi animiste, e sembrano precipitarsi fuori dallo spazio espositivo. Gli artisti ci permettono di scappare per sognare e di prendere posto in questi mondi mutevoli».
Yuko Mohri, Moré Moré [Leaky] The Falling Water Given #4-6, 2017 © Damian Griffiths
Il Centro Pompidou, sta celebrando i 40 anni, tu dirigi quello di Metz dal 2015. Quali sono le principali sfide che devi affrontare riguardo la gestione?
«Il Pompidou di Metz ha solo sette anni, è un museo molto giovane e in pieno sviluppo, insomma è uno strumento non ancora consumato. Comunque la più grande incertezza per questo tipo di istituzioni è di proiettarsi nel futuro, basta una minima instabilità finanziaria per metterla in difficoltà. Le mostre si programmano due o tre anni prima poiché quello che è più importante da avere è la visibilità, e ci si lancia dunque solo in progetti che si è sicuri di poter fare. Al momento ospitiamo una bellissima retrospettiva di Fernand Léger, “Le Beau est partout”, aperta fino al 30 ottobre».
L’Arte come esperienza è il cuore di questo evento lionese, nel senso che sarà l’artista ad accompagnare lo spettatore a vivere l’opera. Giusto?
«Sì, prendiamo Icaro Zorbar, giovane artista colombiano che non mai esposto in Francia, che ha in progetto un’installazione multisensoriale in cui la preoccupazione della fruizione è un punto cruciale dell’opera. Così come per Ernesto Neto che presenterà una cosmogonia bianca in dialogo con opere di Lucio Fontana o Hans Arp. L’artista brasiliano dedica molto tempo a capire come il visitatore potrebbe integrarsi nel suo dispositivo artistico».
Non credi che questo modo di investire l’arte impedisca l’accidentale, il casuale, diventando un atto premeditato?
«Sì, è un atto premeditato! Ma il percorso è aperto, così come il tempo di fruizione dell’opera, non ci sono tappe imposte. È stata realizzata una grande scenografia con meno muri possibili in cui si invita lo spettatore a girovagare liberamente».
Hai visitato la Biennale d’Arte di Venezia?
«Certo, l’ho visitata due volte ed andrò di nuovo a novembre. È molto interessante!” (sorride)».
Dopo Lione, vacanze o progetti?
«Vacanze? No, una mostra sulle coppie moderne! Da Pablo Picasso e Dora Maar, e via dicendo. Al Pompidou di Metz, beninteso!”».
Livia De Leoni