07 marzo 2012

L’intervista/Ivan Navarro Una vertigine luminosa di memoria

 
Nacht und Nebel è l'installazione che l'artista cileno Ivan Navarro presenta alla Fondazione Volume! di Roma fino al 5 maggio. Sette pozzi che rievocano l’atmosfera della Capitale occupata dalle truppe naziste e bombardata ripetutamente tra il settembre 1943 e il giugno ’44. Odio, occhio, ecco, becco, eco, ex, eccidio sono le scritte al neon che sprofondano nei pozzi. Più che parole, attivatori luminosi di senso. Per non dimenticare [di Paola Ugolini]

di

Abbiamo intervistato Ivan Navarro il giorno dell’inaugurazione. Ecco come racconta il suo lavoro

Quando hai deciso di usare la luce come elemento principale nel tuo lavoro?

«Ho cominciato a lavorarci come fotografo, in particolare all’inizio della mia esperienza artistica ero interessato a realizzare un reportage sugli albini. La prima volta che ho visto un albino avevo circa 7 anni, ero rimasto colpito da un gruppo di ragazzini albini molto poveri che appartenevano ad una famiglia di tutti albini, che giravano per il mio quartiere bussando alle case chiedendo l’elemosina. Mi affascinavano perché, pur essendo bambini come me, erano obbligati a portare sempre gli occhiali da sole perché i loro occhi chiarissimi erano pericolosamente fotosensibili. Quando ho cominciato a frequentare l’Accademia d’arte a Santiago del Cile ho passato i primi due anni a lavorare a questo progetto fotografico sugli albini, sono letteralmente andato in giro per le strade a cercarli e quando li trovavo li seguivo e li fotografavo come se li stessi spiando, talvolta li fermavo e cercavo di stabilire un rapporto per poi chiedergli di fargli il ritratto. Ho fatto tantissime cose con gli albini, anche delle performances in cui gli ho tinto i capelli. Ho lavorato con loro sull’idea di identità, cioè in che modo gli albini vivono il concetto di appartenenza in quanto, non avendo un colore di pelle definito, è come se non avessero una razza, e questo mi interessava molto. All’inizio però, più che alla luce, ero interessato ai mobili e all’arredamento perché in quel periodo, circa la metà degli anni ’90, in Cile non c’era un sistema dell’arte, non c’erano gallerie e tantomeno collezionisti, i musei erano luoghi davvero deprimenti e non c’era nessun posto dove esporre arte. I mobili, invece, potevo esporli ovunque. Ho potuto realizzare dei tavoli e presentarli sia come sculture che come oggetti funzionali, è stato anche un modo di criticare l’oggetto d’arte che deve vivere in maniera autonoma rispetto al contesto della realtà. Dopo i tavoli, il mio interesse si è spostato verso le lampade, in particolare i neon, che sono oggetti davvero interessanti, molto flessibili con cui si possono fare molte cose sia oggetti funzionali che sculture luminose».

Il tuo lavoro è sia poetico che politico. Il tuo rapporto con la storia recente del Cile e con le tue memorie private è molto stretto. Come fai convivere due aspetti apparentemente lontani, poesia e realtà?

«Per quanto riguarda la politica ho capito che è molto legata al concetto di regola, cioè a come l’opera interagisce con il contesto sociale in cui viene inserita. La parola “politica” in senso generico non trovo sia giusta, in quanto l’arte ha la sua propria politica che impone delle regole, ci sono molte cose con cui devo dialogare quando realizzo un’opera: lo spazio, la storia, i materiali, l’elettricità, tutte queste cose per me sono la “politica” del lavoro. E tutto questo per me si ritrova in un contesto storico-politico più vasto che le contiene».

Per me è molto interessante il fatto che tu sia nato nel 1972, un anno prima del golpe di Pinochet, un fatto traumatico che ha radicalmente cambiato la vita del tuo Paese e del suo popolo. Hai vissuto gli anni dall’infanzia fino alla giovinezza sotto il regime di quel dittatore. Quando hai cominciato a elaborare il passato e a usare nel tuo lavoro la storia recente del Cile?

«Si, sono cresciuto durante la dittatura. Mio padre è stato una vittima del regime di Pinochet, per fortuna non è stato ucciso, ma dopo il golpe è dovuto scappare. Poi è stato imprigionato e mia madre ha vissuto per più di un anno da sola prendendosi cura di mio fratello e di me. Le comunicazioni erano difficili e molto segrete, si scambiavano lettere clandestine che venivano recapitate tramite amici. Mio padre era molto coinvolto con il partito comunista, durante il governo di Salvator Allende era il direttore della scuola di formazione dei membri del partito comunista cileno. Prima del golpe di Pinochet, l’11 settembre 1973 Salvator Allende era atteso all’università di Santiago dove si stava preparando un grande festival della democrazia. Tutti sapevano che Allende sarebbe andato lì e l’esercito sapeva bene che c’era anche tutto il suo governo che stava lavorando per il festival. C’era molto da fare quella notte e quasi tutti i membri del governo e del partito comunista, oltre ad intellettuali, artisti, registi, poeti e musicisti, rimasero all’università a lavorare. Il golpe fu fatto la mattina molto presto cogliendoli di sorpresa. Allende chiese ai suoi compagni di non abbandonare l’università e di continuare a lavorare e all’Università Tecnica dello Stato, la polizia trovò quasi tutti i rappresentati del partito comunista, fra cui il musicista Victor Hara a cui ho dedicato una performance. I prigionieri furono deportati nello stadio di Santiago. Quello fu l’inizio del colpo di stato di Pinochet, poi gli aerei, dei Mirage francesi pilotati da militari brasiliani, hanno cominciato a bombardare il palazzo presidenziale. Quando i militari hanno fatto irruzione dentro l’università, per fortuna mio padre era riuscito a scappare. Il mattino del 12 settembre è iniziata la dittatura di Pinochet».

Quando hai deciso di lasciare il Cile per andare a vivere in America?

«Nel 1997, a 24 anni. Non potevo rimanere nel mio Paese perché lì non sarebbe stato possibile essere un artista. In Cile avrei dovuto dividere il mio impegno come artista con quello di maestro o pubblicitario. Quindi ho scelto New York, i primi sette anni ho lavorato come restauratore di mobili antichi, esperienza che mi ha permesso di imparare tantissime tecniche che poi ho utilizzato nel mio lavoro di artista. Sono stati anni molto importanti, una vera e propria scuola».

Oggi la situazione in Cile è ancora la stessa?

«Si, non è cambiato niente. Anche se sei un’artista internazionale comunque non puoi vivere in Cile che è lontano da tutto, dove non c’è un sistema per l’arte, né mercato, né gallerie. Stare all’estero è più facile e anche meno costoso. Pensa solo spedire i lavori in giro per il mondo dal Cile, impossibile. Anche i galleristi non sono interessati a lavorare con degli artisti che vivono così lontano, la lontananza è antieconomica».

Quando hai iniziato a pensare al tuo passato, a quello che era davvero successo e come hai cominciato a usare la memoria storica nel tuo lavoro?

«Stare all’estero mi ha aiutato a guardare con maggiore chiarezza al passato e mi ha fatto soprattutto capire che cosa veramente volevo fare. Mi ci sono voluti i sette anni di New York per capire cosa dovevo fare per esprimere al meglio il mio pensiero in un luogo dove non è facile creare qualcosa che abbia un impatto forte. Ho sperimentato molte cose diverse, finché non mi sono sentito pronto di esporre il mio lavoro e di lottare per farlo apprezzare. Volevo fare dei lavori che non raccontassero il mio background cileno, che nessuno avrebbe capito, ma delle opere che fossero in sintonia con New York che ormai era la mia nuova casa».

Hai cominciato a realizzare delle sculture con il neon che avevano le forme di tavoli e sedie. Poi sei passato alla realizzazione di grandi installazioni luminose come quella che hai presentato alla Biennale di Venezia del 2009 e ora qui alla Fondazione Volume! di Roma dove, dopo il primo livello di piacevolezza estetica, emerge un piano denso di significati legati alla storia. In questo lavoro hai mixato diverse memorie storiche: la Roma dei bombardamenti del 1943-44, le catacombe e il termine nazista “Nacht und Nebel” che è il titolo della mostra.

«Quando ho cominciato a pensare a questa mostra romana stavo leggendo un libro di Susan Sontag Davanti al dolore degli altri, dove ad un certo punto lei scrive “tutte le memorie sono locali” e questo mi ha fatto molto riflettere sui contenuti di questa mia esposizione. Mi interessava l’idea delle catacombe, stavo lavorando con i mattoni che è un materiale che si ritrova in quei luoghi, lavoravo anche sull’idea dei buchi, nel senso di aperture nel pavimento. Così ha preso forma l’idea di questa installazione. Ho fatto delle ricerche sulle catacombe romane fino ad arrivare al massacro delle Fosse Ardeatine. Mi interessava anche indagare sulla parte che la chiesa cattolica aveva avuto, cioè se il papa Pio XII era coinvolto nell’eccidio.

“Nacht and Nebel” è il nome del programma di sterminio progettato dai nazisti per l’eliminazione degli ebrei e delle persone contrarie al regime. Il termine fu preso da un’opera di Wagner, la sigla NN era cucita sui vestiti dei prigionieri destinati ai campi di sterminio nazisti. In Cile si sapeva del piano “Nacht und Nebel” infatti i “desaparecidos” venivano identificati, quando venivano ritrovati i corpi privi di documenti, con la sigla NN (No Name) di chiara derivazione nazista. I governi fascisti latinoamericani hanno ripreso quel piano nazista proprio con il nome originale tedesco per azzerare l’opposizione».

Parlami delle parole che componi con le lettere speculari che hai utilizzato in questo lavoro.

«Il primo passo è stato comprare un dizionario Italiano/Inglese e, dato che lavoro con quest’idea delle lettere speculari da molti anni, so quali sono quelle che si possono doppiare. Ho composto undici parole e fra queste ho scelto le più poetiche e anche le più aderenti al progetto espositivo, parole che creano la connessione più forte con il contesto locale. Dopo ho fatto dei test chiedendo a svariate persone se quelle parole avevano ancora quel significato preciso e se sono ancora in uso nel linguaggio corrente. Il fulcro del lavoro è quali connessioni io posso fare fra l’installazione, le parole e la storia. Per me la storia è anche il modo con cui viene raccontata, è una metafora che con gli anni si trasforma in una favola, in una “fiction”. Ecco perché uso la metafora degli specchi e del doppio, cioè di utilizzare solo metà delle parole scritte con il neon mentre il resto non è che un mero riflesso della parte reale. Il riflesso è per me la rappresentazione della storia che ripete se stessa per tante volte fino a svanire».

1 commento

  1. …Una mostra davvero interessante, decisamente da visitare.
    Moltissime sono le riflessioni che emergono alla visione delle sorgenti luminose e dei pozzi profondissimi offerti da Ivan Navarro.
    Un’efficace cura per chi soffre di vertigini, ho ingenuamente pensato.
    … E poi realizzare, proprio a due passi dal surluogo statico della negazione della libertà umana, che in fondo niente è più elevato del pensiero, dunque impossibile è elevarsi altrimenti, pensando di poter cadere più in basso dei propri piedi.

    .

    Grazie ai contesti intelligenti offerti della Fondazione Volume.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui