10 giugno 2013

Aldo Mondino, andata e ritorno

 
Si intitola “Nomade” la grande retrospettiva dedicata ad Aldo Mondino alla Fondazione Mudima di Milano. Un percorso ricco di suggestioni, che racconta di uno sguardo incantato dell'arte. Una pratica che in questo caso è bulimica di immagini, incontri, odori, suoni raccolti in un continuo spostamento. Dove è lampante la grande capacità dell'artista di anticipare avanguardie. Senza adottarne nessuna

di

Aldo Mondino, L'ultimo gioco, 1967, pesce, sangue, scivolo in metallo, piano argentato_ph. Fabio Mantegna   Aldo Mondino, Grande arabesque (esemplare n.39), 1995, bronzo, h 300 cm_ph. Fabio Mantegna

Iniziare il percorso di una mostra con una grande scultura che raffigura la gamba di una ballerina (di Degasiana memoria) che sostiene un grande pesce dorato, è già una dichiarazione d’intenti. Se poi l’artista presentato è Aldo Mondino allora l’Arabesque, questo il titolo del primo pezzo che si incontra a fare da apristrada alla Fondazione Mudima di Milano è, come racconta ironicamente il figlio Antonio, «un avvertimento a quello che arriverà poco dopo». 
Una serie di adescamenti legalizzati per trarre in inganno lo spettatore che, incosciente, potrebbe definire malamente l’universo di Aldo Mondino come “giocoso”, “ironico”. Piuttosto invece sarebbero opportune parole che hanno a che fare con una iridescenza dell’opera, con un istrionismo liberato da qualsiasi aderenza a stili e correnti, completamente “Nomade”. Proprio come il titolo della mostra milanese, curata da Achille Bonito Oliva. 
Un’esposizione-costellazione, ricchissima di pezzi che creano un resoconto di buona parte della produzione dell’artista, partendo dal 1964 per finire intorno ai primi anni del 2000. «È un omaggio a un grande artista senza una tematica precisa», spiega Gino Di Maggio, a capo della Fondazione Mudima. Eppure, passando da Dervisci danzanti ai Tappeti stesi in eraclite, associati a Raccolto in Preghiera, il grande “carpet” composto da venti tipi di granaglie differenti, suddivise per cromia – esposto anche a Palazzo Serbelloni in occasione del festival Bookcity – c’è una sorta di unione continua che rimanda non solo all’epopea dell’artista, ma anche all’intera storia dell’arte del secondo Novecento. Che appartiene visceralmente a Mondino, soprattutto nel suo continuo respingerla, per adottarla come viatico ma non come dogma.
Aldo Mondino, Raccolto in preghiera (tappeto di granaglie), 1986, granaglie, 400×200 cm_ph. Fabio Mantegna

L’opera più forte, il secondo monito dopo il totem-Arabesque è L’Ultimo Gioco, più spesso chiamato anche Ittiodromo del 1967. Sul terreno di gioco dei bambini giace riverso un pesce vero, in questo caso un salmone, in grado di anticipare temi e correnti: l’ittico deceduto, che si mostra esanime alla fine dello scivolo, e che introduce l’olfattività nell’opera di Mondino, arriva due anni prima dei cavalli vivi di Kounellis, all’Attico di Sargentini. È un’opera cruda L’ultimo gioco, antecedente a quelle “rivelazioni” delle produzioni dell’artista torinese che hanno a che fare con l’orientalismo e le religioni, che in questo caso passa attraverso il tema della competizione, della fine che chi si mette in gioco deve preventivare come possibilità: la sconfitta. Un dialogo che continua con Gravére del 1969, un “muro” di aringhe affumicate – in questa occasione di bronzo – che richiamano un’altra opera di carattere più monumentale che Mondino aveva realizzato proprio nel cortile di Mudima, nel 1990: Il Muro del Pianto
Anche qui, nei grandi pannelli allestiti al piano superiore della Fondazione un altro elemento che ha a che fare con la vita dell’uomo, con la cucina, la tradizione: lo zucchero. «Metteva le mani in pasta Mondino, aveva la capacità di creare infinite immagini partendo dal nulla, con pochissimi elementi a disposizione», ricordano gli amici dell’artista e chi l’ha conosciuto. 
Aldo Mondino, Muro del pianto, 1988, zucchero bianco e zucchero di canna, cm400x600

Ma c’è qualcosa, nell’arte di Mondino, che sfugge continuamente da un’identificazione, lontana da qualsiasi accademismo. Non è un caso che cronologicamente la mostra si apra con Non calpestar, il dipinto di una silhouette su zerbino datato 1964, che l’artista realizza guardando all’opera di Felice Casorati come bonaria presa in giro della borghesia torinese. Irriverente Mondino, che si accosta alla Pop senza mai prenderne parte, e che in una manciata di anni parigini – «quasi di esilio», come ci ricorda Antonio Mondino – si dà alla pittura, mentre tutto intorno, nel globo occidentale dell’arte, vivevano la stagione d’oro pratiche concettuali, minimal o legate alla corporeità.
Gli esempi lampanti sono nel dialogo tra Gireifel, olio su tela che riprende le costruzioni cubiste e suprematiste delle xilografie che Mondino aveva realizzato negli anni ’60 e ’70, e che portavano con sé anche echi dell’Aeropittura futurista, ed Eiffel, la Tour di oltre 3 metri costruita con oggetti presi dal proprio studio: una concrezione che pare strizzare l’occhio a poetiche legate al Nouveau Realism e Neo Dada, definita affettuosamente da Achille Bonito Oliva una “Quinta internazionale”, seguendo gli esempi di Tatlin. 
Aldo Mondino, Viola d'amore, 1985_ph. Fabio Mantegna   Aldo Mondino, Eiffel, 1989, bronzo, 330×160×95 cm_ph. Fabio Mantegna

Ma torniamo al titolo per un istante: “Nomade” è anche un altro aspetto non trascurabile nella produzione e nella poetica di Mondino, ovvero il mix esemplare dei caratteri orientali declinati non solo nella dimensione più occidentale dell’arte, ma anche nei suoi supporti. E poi nomade è lo sguardo verso i grandi Maestri: non a caso, a Venezia, nell’antica Farmacia del Redentore, sono attualmente esposte otto pitture su linoleum che guardano a Manet e alle sue composizioni, Ottomanè.
Nulla al caso, al divertissment volgare o sterile, ma tutto improntato ad un ampliamento dello sguardo nell’orizzonte dell’artista. 
E anche alla percezione dell’arte. Non è da sottovalutare infatti l’impianto “olfattivo” dell’opera di Mondino. E se il conflitto dell’Ittiodromo funziona in relazione anche all’associazione pesce-viscido-scivolo, nel barocchissimo The byzantine world, del 1999, costruita per la mostra da Sperone Westwater a New York e che si ispira alla moschea blu di Istanbul, c’è tutta la magia del cioccolato peyrano, che Mondino aveva usato per le sue sculture e i “bassorilievi” già a partire dagli anni ’70. Una tecnica, quella del mosaico, che l’artista aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Parigi, con un maestro d eccezione: Gino Severini. Un altro esempio di come la produzione di Mondino sia aperta a 360 gradi, in una modalità anche viscerale, «che forse l’arte contemporanea dovrebbe riprendere come modello», spiega Di Maggio. 
Aldo Mondino, Senza titolo (piscina di marshmallow), dimensioni ambientali_ph. Fabio Mantegna

E di nuovo torna il profumo, con la Piscina di marschmallow, proposta per la prima volta nel 1982 alla Quadriennale di Roma: l’incanto qui coglie, come bambini immersi nel proprio dolce sogno (perché la scaletta per la discesa è piantata ben sopra le nostre teste), ed è difficile dichiarare un vincitore tra la meraviglia o la curiosità. Al piano superiore si intrecciano di nuovo i fili; un’installazione di piccole opere su linoleum dove i dervisci hanno vesti bianche, installati seguendo il vortice della danza; e poi la bellissima Gojesca del 1991,  Darwin che diventa Darwing, e molto “drawing”, in una serie di disegni su carta del 1974 e, chiudere il cerchio, la tela Rabbino, in dialogo diretto con Il muro del Pianto e il bronzo del 1988 Gerusalemme, dove una serie di cappelli a tesa rigida, nerissimi, identificativi dei padri dell’ebraismo, appesi ai rami secchi di un albero della conoscenza che potrebbe essere carbonizzato: olocausto, in greco, significa “bruciato interamente”. 
Dulcis in fundo l’avvicendarsi dei tappeti, il tema ricorrente, tra voli pindarici in un’andata e ritorno per l’Oriente. Per un aprire un orizzonte sul nomadismo reale dell’arte, compiuto attraverso un reale cammino di chilometri e l’incontro con le storie del mondo, e i suoi materiali. 

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