24 ottobre 2012

L’atlante elettronico di Carsten Nicolai

 
L'artista tedesco si appropria del grande spazio dell'Hangar Bicocca con le sue opere immateriali. Immagini e suoni elettronici, ritmici pattern di linee in bianco e nero che stordiscono il pubblico, trasportandolo in un ambiente spaziale fluidificato e senza tempo. Per questo "Unidisplay" è, come dice lo stesso Nicolai, il suo lavoro più riuscito e più completo. Un'esperienza da fare, al di là del controllo della coscienza

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Carsten Nicolai, conosciuto anche sotto lo pseudonimo di Alva Noto, classe 1965, nasce in Germania a Karl-Max-Stadt. È musicista, produttore e artista poliedrico per la sua capacità di creare opere multidisciplinari che uniscono gli studi sperimentali sulla musica elettronica all’informatica, alla video-arte, all’Arte Ambientale. Il suo percorso è abbastanza singolare, centrato dall’attraversamento di varie discipline. Inizia la carriera come giardiniere, per seguire poi, tra il 1985 e il 1990, un corso di architettura del paesaggio a Dresda e fondare nel 1992 il Voxxx.kultur Und Kommunicationszentrum. Nel 1999 crea l’etichetta discografica Raster-Noton, che subito si distingue per la produzione di musica elettronica. Ha esposto in prestigiose sedi museali tra cui la Neue Nationalgalerie di Belino (2005) e la Pace gallery di New York (2011); ha partecipato alla Decima edizione della Documenta di Kassel, alla 49ª e 50ª edizione della Biennale di Venezia. In Italia la sua presenza è segnalata la prima volta nel 2003 a Milano presso la galleria Paolo Curti e Annamaria Gambuzzi; con l’installazione Pionier II a Napoli (2009), dove tre palloni aerostatici illuminati ondeggiavano in piazza Plebiscito – da sottofondo il suono delle onde telluriche del Vesuvio. Infine, nel 2010 a Roma presso Il museo Hendrik Christian Andersen e al Maga di Gallarate.

È ora di scena all’Hangar Bicocca di Milano con “Unidisplay” (a cura di Chiara Bertola e Andrea Lissoni, fino al 2 dicembre) e il 29 novembre sarà possibile assistere a una sua performance live. La panchina che accoglie i visitatori è lunghissima. Di fronte una parete di 40 metri i pattern sono proiettati sullo schermo: sono come dei contenitori che poi si dilatano per lasciar vedere il contenuto. I visitatori rimangono come ipnotizzati, assorbiti completamente dalla parete-schermo, resa infinita grazie a due specchi – vere e proprie porte della percezione – sulla quale senza soluzione di continuità viene proiettato il suo ultimo lavoro, a detta dello stesso Nicolai il più importante e completo della sua produzione. E imponente è anche l’accostamento con le torri di Kiefer, di cui l’opera di Alva Noto è degno contraltare, correndole parallela in lunghezza, quasi animandola con la sequenza di bit elettronici che risuonano per tutto l’Hangar.

La struttura è costituita da alcuni pattern di base come “magnetic field”, “vertical line rotation”, “horizon”, “random”. Queste piattaforme, tutte riconducibili al mondo geometrico – punti, linee, superfici –, come indagate al microscopio, si allargano sullo schermo e proliferano, si dilatano, si restringono, si dispiegano in texture, generate nel loro movimento da bit elettronici a diversa frequenza che insieme giungono a completare l’installazione e di cui le immagini che scorrono sotto gli occhi dello spettatore vogliono essere fedele trascrizione.

Le proiezioni sono rigorosamente in bianco e nero, eleganti e ritmiche (e se fossero proiezioni statiche ci si ritroverebbe in parte vicini ai lavori di Sol LeWitt); la durata di ciascuna sequenza è variabile, così come la continuità delle forme, ora spezzate da un suono greve, ora inceppate da un ronzio sordo, ora rese fluide da suoni più lunghi e regolari. Lentamente lo spettatore comincia a perdere la percezione del tempo e dello spazio e di ritrova in un flusso di immagini che via via aderisce fino a combaciare con quello coscienziale: allora ciascuna forma assume un significato o lo perde a seconda di come viene assorbita in quell’istante. Così linee tubolari diventano sbarre, rettangoli per un momento allineati si trasformano in finestre illuminate di un palazzo, altre linee verticali bianche che si intersecano divengono un immenso Mikado, una barra orizzontale scomposta i cui pezzi si rifondono ricorda uno scambio cellulare. Poi silenzio, buio. Infine (ma dopo quanto tempo?), di nuovo qualcosa sulla superficie, di nuovo un suono.

A questo punto si fa chiaro che l’opera di Nicolai non è più solo sua: diventa in parte anche nostra, diventa un’occasione per proiettare qualcosa di noi all’interno di queste geometrie mobili, di queste architetture essenziali, di questi bit primordiali. Lasciar fluire, fluidificare la mente, perdersi e ritrovarsi. Quando sullo schermo compare una timeline, quando il tempo reale si affaccia e ci riporta in una dimensione conosciuta, o quando tra una proiezione e l’altra lo spazio si annulla in una superficie nera e torna luogo potenziale, avviene qualcosa nella percezione, ci si accorge della vertigine in cui si era precipitati qualche momento prima, come fossimo stati seduti sulla scala ripida del celebre quadro di Spilliaert Vertigo.

Ci rimbomba ancora nelle orecchie lo sciamare dei suoni-rumori o improvvisamente si avverte un ultrasuono lunghissimo e feroce, che ci resetta in vista del successivo incontro ipnotico. Allora tanti punti si dispongono come stelle e appare un universo ordinato, tante linee oblique sono attraversate da un fascio di luce, come avveniristica sconosciuta divinità, grandi filamenti di dna si succedono mentre le vibrazioni del suono si fanno più potenti. Eppure è tutto così semplicemente complesso, così variato, così perpetuamente mobile, ripetuto, scandito, che l’occhio non si stanca ma si immerge, e quando le forme non si lasciano ricondurre a niente si resta a guardarle per quello che sono, senza dover loro attribuire un significato preciso, o associare un’immagine. Carsten Nicolai lascia lo spettatore libero di giocare con il tempo e lo spazio della sua architettura.

Nell’era del digitale il lavoro di Nicolai appare come un atlante contemporaneo, minimale ed elettronico, accessibile a tutti. La leggibilità universale dell’opera è già sottintesa nel suo titolo, Unidisplay: un contenitore di infinito, un trittico – suono, immagine, ambiente – dispiegato e ingegnato per l’ebbrezza sensoriale dello spettatore. Il lavoro di Nicolai può essere definito uno scrigno prezioso, una wunderkammer di ultima generazione che conquista e lascia ciascuno spettatore ricolmo di interiorizzate proiezioni.

Nello stesso tempo, pensando al Nicolai della musica elettronica, dove il suono è scomposizione, è frammentazione, è monade e glicht, la mostra è anche un’anti wunderkammer, come una stanza privata del “meraviglioso” e ridotta all’essenza, in cui il visitatore è chiamato a non interpretare, ma solo a farsi coinvolgere. Allora i punti rimangono punti, le linee rimangono linee, le onde rimangono onde, e i bit bit. Lo schermo diventa una grande tavola dove la parola chiave è il susseguirsi, di suoni e immagini, che scivolano uno via l’altro, lenti e veloci, ordinati e scomposti. Si assaporano solo ritmo, variazione, casualità e forme che vogliono essere pure matrici. E nonostante la componente di apporto immaginativo personale venga meno, non si esce da questo tunnel audio-visivo meno soddisfatti. Subentra qui una logica filosofica, tutta del pensiero, che si avvicina allo zen: dove un vuoto non è un’assenza ma la necessaria premessa per ottenere un pieno.

Tra superficie e profondità, tra contenitore e contenuto, si colloca questo lavoro di Nicolai, davvero unico nella capacità di integrare sguardo e visione.

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